Alessandro Guidi – Si può ascoltare la bellezza?

 In Alessandro Guidi, Etica, Miscellaneous debris
Download PDF

Si può ascoltare la bellezza?

La sfida tra la parola e lo sguardo nella cultura psicoanalitica

di Alessandro Guidi

Moderatrice: Giovanna Cardini

Con la partecipazione di Tommaso Fiorenza e Francesco Pratelli

 

Cardini: il titolo della relazione è il seguente: “Si può ascoltare la bellezza? La sfida tra la parola e lo sguardo nella cultura psicoanalitica”. Prego, la parola al dott. Alessandro Guidi.

Guidi: vorrei precisare, fin dall’inizio che la proposta di Giovanna Cardini al riguardo della realizzazione di questo incontro, l’ho raccolta come se fosse una sfida, una sfida che viene da lontano, esattamente dal 1977, al tempo in cui non ero ancora analista pur essendo in formazione da diversi anni proprio in quanto ho iniziato molto presto ad interessarmi di psicanalisi. Nel ’77 è avvenuto qualcosa d’importante per me, perché ho avuto la fortuna di pubblicare il mio primo articolo in una rivista specializzata, ovvero Il piccolo Hans, una rivista che ha fatto storia nel mondo della psicoanalisi italiana, curata da colui che è stato il mio maestro di allora ovvero Sergio Finzi. Ho seguito Finzi per diversi anni, anche se poi ho proseguito per altre formazioni, sempre lacaniane. Questo mio articolo che pubblicai su Il piccolo Hans, s’intitolava La sfida fra l’occhio e la parola nella cultura psicanalitica, e per questa occasione ho ripreso questo mio articolo in quanto oggi come allora, mi interesso delle opere di Marcel Duchamp. Vorrei quindi leggervelo per intero.

“Le motivazioni che mi hanno spinto a parlare oggi di questa sfida sono da ricercare in una frase di Marcel Duchamp riportata da Giovanni Arpino in un commento alla pittura di Rembrandt, ed è la seguente. Diceva Duchamp che:

«E’ impossibile, forse addirittura blasfemo, commentare un’opera d’arte. Solo gli occhi e un determinato atteggiamento mentale possano collocarsi in una giusta posizione davanti ad una tela, ad una scultura, ad un incisione e si può anche dire ad un testo teatrale, a un testo di scrittura a un testo musicale. La parola è non solo arbitraria, ma insolente e ridicola, e rischia sempre di sovrapporsi a quanto la tela, o la scultura ecc.., dicono. La parola può tradire».

Una frase che a quel tempo mi mise in subbuglio. Fu quindi un incontro, e la logica dell’incontro si è mantenuta in me viva fino ad oggi perché, negli anni che vanno dal 2012 al 2016, con Giovanna Cardini siamo arrivati ad altri due incontri importanti che la riguardano, ovvero l’incontro con Van Gogh e Vermeer a partire dai quali sono poi nate le sue pubblicazioni. Come analista, la mia funzione è quella di chiarire l’incontro. In questo senso, nell’incontro con l’altro, con l’arte, con l’opera d’arte, si racchiude tutta la vita che mi riguarda. Questa è una sintesi della mia personale motivazione nei confronti di questa sfida, ma proseguendo vorrei leggervi questa mia personale relazione che non sarà certamente molto semplice, perché scritta in un linguaggio psicoanalitico tecnico, ma al tempo stesso molto importante per mettere al centro dell’attenzione i punti fondamentali per questo nostro incontro:

“Quando alla fine degli anni ’70 venni a conoscenza di questa affermazione di Duchamp, – quella sopracitata – a quel tempo la presi come occasione per scrivere un articolo per una rivista di psicanalisi nel quale introducevo l’arte nel campo analitico, che è il luogo da dove oggi parlo essendo analista. Questa intrusione dell’arte nel campo analitico mi è servita già per confrontare, come ricorda Duchamp, le caratteristiche della parola e dell’occhio davanti all’opera d’arte che è l’oggetto della contesa”.

Quindi il fatto che la parola sia blasfema – blasfemo vuol dire che dissacra le opere morali e religiose, e traditrice, il che vuol dire trasformare in altro, quindi, ecco, – mi è sembrata un’affermazione forte rispetto anche dell’opera d’arte nei confronti invece dell’occhio che viene assolto. Quindi allora se questi due elementi, questi oggetti, due sfidanti, si portano in campo analitico abbiamo un altro risultato.

“Dentro il campo analitico la sfida avviene in modo paradossale perché, solitamente, il luogo della sfida è un luogo aperto e neutrale, mentre in questo caso il paradosso riguarda il luogo in cui si svolge la sfida stessa tra l’occhio e la parola e dunque non è affatto neutrale, ma inclina verso entrambi gli sfidanti, perché sia la parola che l’occhio, per caratteristiche costruiscono il campo analitico stesso”.

Per cui il campo analitico, cioè la psicanalisi, non può fare a meno né della parola, né dell’occhio. Sono due strade che s’incrociano e divergono, convergono insieme. Questo luogo rende dunque inconsueta la sfida perché sia l’occhio che la parola appartengono agli stessi elementi che caratterizzano il luogo medesimo.

“Il luogo rende chiusa la sfida delimitata dai confini del campo analitico perché lasciare che la sfida avvenga in campo aperto non renderebbe merito alla particolarità della posta in palio che consiste nella motivazione che ha promosso la sfida, cioè il diverso atteggiamento che l’occhio e la parola hanno di fronte ad un oggetto artistico. Un oggetto artistico qualsiasi, sia esso visivo come un dipinto, una scultura, ma anche un testo scritto o un brano musicale.

La sfida che avviene nel campo analitico segue le regole di questo campo: le regole riguardano: 1) la durata temporale della sfida; 2) l’amore per l’oggetto della sfida, amore temporalizzato; 3) la sfida deve essere dionisiaca e all’insegna del gioco del paradosso, ma regolata dalla struttura cosi detta apollinea della teoria dei luoghi plastici, come per esempio il surrealismo che mette in gioco un senso insensato; 4) infine l’intrusione dei due sfidanti nella logica del soggetto che sa sui propri punti deboli, tanto che il finale della sfida sarà sorprendente per una sfida”.

Quindi:

“Esaminiamo ora i due sfidanti, le caratteristiche”

dell’uno e dell’altro e

“anche l’oggetto della contesa”.

“Nella frase di Duchamp ci sono indicazioni precise sui due sfidanti che naturalmente prendono un’altra piega se considerate dentro il campo analitico. Infatti tutte le caratteristiche negative della parola (blasfema, traditrice, arbitraria, insolente, ridicola) e le caratteristiche positive dell’occhio (posizione giusta davanti all’oggetto artistico e connessione mentale consona alla visione dell’occhio) subiscono per attrazione epistemologica locativa (teoria dei luoghi) che per rappresentazione orgiaca dionisiaca (Gilles Deleuze) una tumultuosa inquietudine e un passionale coinvolgimento degli sfidanti per l’oggetto in palio.

Ovvero, la sfida lanciata da Duchamp, che come vedremo non è così innocente nelle sue valutazioni fra sfidanti, si colloca in una rappresentazione rettilinea dove ogni movimento dei due sfidanti percorre lo stesso tempo nel lanciare l’attacco, un tempo lineare per la conquista dell’oggetto in palio, un oggetto artistico che rimane mentale e presupposto senza comparire sul campo di battaglia”.

Precisiamo: chiaramente, l’oggetto della sfida è un oggetto mentale, non l’oggetto in quanto tale come il quadro, il testo, per cui questa è una dichiarazione tutta mentale, come a voler dire: “Sfido “x”, sfido l’altro a duello. Ma per ora è una sfida solo teorica”. È importante chiarire come non compaia l’oggetto della sfida. Ma continuiamo:

“In realtà, l’immissione nel campo analitico della sfida trasforma, la linearità diacronico-spaziale – cioè temporale e spaziale, sincronica – nella rappresentazione organica, come se la sfida stessa fosse rappresentata come un quadro classico, come quello di Rembrandt…”.

Questo significa che la rappresentazione organica è una rappresentazione organizzata secondo una bellezza classica, come in Vermeer, come in tutta la pittura classica o l’arte classica.

“… in una rappresentazione orgiaca dove la bellezza della forma si mostra in un’apparente confusione e disorganizzazione che in realtà invece è organizzata secondo una dimensione dionisiaca: la bellezza cioè non è solo quella dove l’occhio riposa in modo armonico, ma quella che apre alla dimensione dell’oltraggio, cioè oltraggio alla forma, messa in campo secondo lo stesso Duchamp, da Picasso, ma anche oltraggio al pudore dove il corpo nudo ha perso la dimensione del sacro-religioso per aprirsi al giudizio del sacro-laico come per esempio risuona nel lettore la parola di Georges Bataille o ancora più di Pier Paolo Pasolini”.

Cos’è il sacro laico, a differenza di quello religioso? Il sacro laico non fa riferimento ad una religione nel senso abituale del termine, ma ad una religione vera, ovvero credere ad una verità scomponibile, ovvero una verità che si riesce a toccare con mano, una verità corporea, incarnata. Quindi, quando si parla di sacro nella religione, questo sacro non rimanda ad una religione organizzata, ma ad una credenza, al credere ad una verità nei termini di verità scomponibile, scomponibile come materializzabile, corporea, che si incarna nel corpo, che si tocca con mano. Quindi una verità incarnata e non una verità trascendente, ovvero una verità che si organizza all’interno di una presenza immanente del corpo, della carne. Quindi il corpo nudo non è una forma in senso classico, sacro e religioso, ma è contrariamente la nudità che possiamo osservare in Francis Bacon ma anche Egon Schile, dove è presente un corpo oltraggioso, come oltraggio alla forma. Sia Bacon che Schiele, sono sicuramente un oltraggio alla forma. Oppure, se vogliamo anche in Lucian Freud, il nipote di Sigmund Freud, dove troviamo un corpo rugoso, un’estetica che non è estetistica. Come chiariva Jacques Lacan: “L’estetistica è la forma di una bellezza vuota, l’estetica di una bellezza piena” ovvero di un corpo vero, carnale, materiale. Nel linguaggio cinematografico abbiamo un rappresentante incredibile di questa verità, di un’estetica del brutto, ovvero Pier Paolo Pasolini. Pasolini è l’estetica del brutto, ma in questa estetica del brutto è semplicemente grandioso, è grandissima perché tocca il popolo, tocca la carne. Ma torniamo alla lettura:

“Dunque gli sfidanti in questa prospettiva orgiaca non possano tirare dei colpi come se fossero alle Olimpiadi davanti ad una giuria, perché il campo dove è organizzata la sfida, quello analitico, non ha giudici esterni, ma solo giudici interni ed invisibili che muovono le fila delle motivazioni degli sfidanti, che hanno promosso la sfida e dunque non per questo il campo analitico è meno organizzato. Infatti: “Le rappresentazioni sono messe in scena da ciò che nascondono, cioè che hanno la funzione di nascondere. Le rappresentazioni esistono solo per dissimulare la ragione della loro esistenza[1].

La rettificazione dunque della sfida organizzata attraverso il campo analitico conduce a questo punto chiave che riguarda il rovesciamento del guanto fondato su un punto detto utopico e il punto utopico è fondato sulla dissimulazione degli sfidanti i quali non possono reggere da soli, ma implicano nella loro esperienza di occhio e parola la rivelazione di quell’elemento della sfida assolutamente centrale ovvero il soggetto rispetto al quale sia l’occhio che la parola qualunque sia l’oggetto artistico e qualunque siano le motivazioni, sono delle maschere che mascherano il soggetto stesso, lo nascondono e lo rivelano: il punto utopico è questo punto, dove le maschere occhio e parola, che si sfidano nelle loro motivazioni, costruiscono un’esperienza del soggetto da esse incluso. E l’inclusione del soggetto implica la rottura, qualunque sia l’oggetto artistico, con la rappresentazione formale, lineare organizzata in modo apollineo, ma implica anche la rottura con il dionisiaco orgiaco informale”.

Quindi sia con l’arte classica che con quella contemporanea, perché, sia l’arte contemporanea che l’arte classica si dispongo come una sfida fra parola e occhio senza la questione del soggetto. La sfida rimane profondamente teorica, astratta. Continuo a leggere:

“Ora il punto utopico del campo analitico non pone una sfida con due maschere, ma un unico soggetto in gioco. Questo è il punto, e questo vuol dire che la parola e l’occhio nei loro mascheramenti definiscono una sola esperienza soggettiva. Infatti l’opera d’arte in campo analitico assume una posizione di quadro che contiene l’oggetto di rovesciamento o punto utopico dal quale un soggetto che guarda l’oggetto, è diviso fra due mascheramenti, quello dell’occhio e quello verbale della parola. Ma proseguiamo:

“Un unico soggetto e due mascheramenti quindi: il soggetto che si maschera da occhio e il soggetto che si maschera da parola. Ma la parola e l’occhio sono quindi intercambiabili, sono in connessione, sono in sovrapposizione rispetto al soggetto che è unico. Il soggetto viene quindi coinvolto o colpito in un’esperienza istantanea – come ad esempio è accaduto a Giovanna Cardini con Van Gogh e Vermeer – viene colpito nell’incontro in un qualcosa di istantaneo che Duchamp enuncia come sfida fra due entità, non accorgendosi invece di parlare dello stesso elemento soggettivo: se la parola può tradire, l’occhio infatti è un travestimento mascherato della parola anch’esso dunque può tradire quindi abbiamo un tradimento diverso nell’ambito di uno stesso soggetto che incontra l’oggetto artistico – qualunque esso sia – come se quest’ultimo fosse una sorta di quadro dal quale il soggetto stesso è inquadrato nella sua esperienza di mascheramento e tradimento”.

Precisiamo ancora che il soggetto che guarda il quadro – qualunque esso sia – l’opera d’arte, è inquadrato e quindi è il soggetto che guarda, che osserva che viene smascherato o tradito, o si coglie un aspetto di tradimento.

“Duchamp, dunque nel distinguere la parola dall’occhio attribuisce alla parola una fragilità, una falsità intrinseca alla stessa parola, mentre all’occhio attribuisce un sostanziale sguardo veritiero ma questo paradigma non regge perché è fondato sulla paura di Duchamp (elemento soggettivo di colui che, attraverso la parola comunica una sua posizione personale) – Duchamp aveva dunque paura della parola e si affida all’occhio – che la parola si sovrapponga al quadro e questa paura è inutile perché la parola non ha bisogno di sovrapporsi al quadro in quanto il quadro stesso è una struttura significante dove la parola costituisce l’elemento fondamentale, cioè l’opera d’arte – qualunque sia – può dire qualcosa ma dice qualcosa d’ingannevole se non si distingue nell’ambito della parola, cioè nel simbolico che struttura l’opera d’arte, la parola piena da quella vuota”.

Dunque l’opera d’arte, qualunque essa sia, un quadro, un brano musicale, ecc.. è ingannevole se non si distingue una parola piena dalla parola vuota, una parola mascherata da una parola simbolizzata.

“Con Lacan nomineremo la parola, come colei che struttura simbolicamente, parola piena, mentre raddoppiamento immaginario della stessa parola sotto le vesti dell’occhio si chiama parola vuota. Ma questa distinzione puramente teorica si costruisce come esperienza concreta solo a partire dalla soggettività incarnata, in individui in carne ed ossa che parlano e che si aprano al rischio dell’incontro con l’opera d’arte”.

Quindi non c’è opera d’arte se non c’è incontro. Incontro con l’opera d’arte che si chiama quadro; quadro, ripeto, non come dipinto, quadro, testo, testo musicale, racconto.- Qualunque oggetto con cui si incontra il soggetto perché inquadra- ecco perché si chiama quadro- il soggetto parlante e la sua parola piena oppure che inquadra lo sguardo che l’oggetto quadro getta sul soggetto che lo guarda e per questo lo riguarda.

“Insomma Duchamp commentando Rembrandt ha espresso una posizione radicale inventandosi una sfida fra i contendenti, l’occhio e la parola, l’uno che non tradisce mentre l’altro tradisce, involontariamente e senza saperlo – appunto si sa che l’inconscio parla, gode, ma non sa niente – ha messo in campo una sfida in casa all’interno della struttura del soggetto impegnato a mascherarsi di fronte ad un oggetto-quadro che lo turba – perché ne ha paura, mi riferisco a Duchamp – esprimendo la sua paura di tradimento”.

Chissà a quale tradimento pensava Duchamp? Ma questo è un altro discorso:

“La sfida fra due soggetti come l’occhio e la parola si svela essere una sfida nel soggetto tra la sua parola immaginaria e vuota, ovvero non vera, cioè mascherata e la sua parola piena cioè simbolica e vera, che riguarda l’aldilà del principio di bellezza, cioè l’abisso, il punto abissale sulla perdita. Ci ricorda Lacan che l’artista di qualsiasi arte rappresenta con l’immaginario ciò che il soggetto ha perduto) per sempre”.

Guidi: – vero?

Cardini: si, per sempre..

Guidi: siamo sulla stessa barca..

Cardini: per questo ce ne sono pochi, perché nessuno perde.

Guidi: perché non rischiano. Ma proseguiamo:

“Siamo sulla stessa barca e non si può sfuggire alla necessità di una struttura comune fra l’occhio e la parola vuota e parola piena. L’occhio dell’io immaginario è la parola vuota che tenta di svuotare con le maschere, i travestimenti, la soggettività della parola piena legata alla posizione dell’osceno della morte, che la bellezza con il suo velo copre”.

Guidi: quindi Lacan dice che la bellezza è l’ultimo velo prima della morte. Mi viene in mente il film di Sorrentino che da grandi sensazioni morte, perché in quella bellezza perfetta c’è morte, quindi è l’ultimo velo oltre il quale si apre l’abisso. In Sorrentino lo si può vedere sia ne La grande bellezza sia in Youth.

“Allora ciò che le regole del campo analitico dicono a chi vuol imbastire una sfida a suon di considerazioni – come Duchamp – e che abbia come oggetto un’opera d’arte, è necessario rispettare le regole il che rende la sfida una sfida all’insegna della propria struttura soggettiva inaugurata da un incontro. Il tempo, ci vuole tempo per appassionarsi a giocare nella vita, con il proprio sapere che riguarda la mancanza d’essere”.

Questo passaggio lo reputo importante perché chiarisce come ci voglia tempo per appassionarsi a giocare nella vita con la propria mancanza d’essere. Qui ci sono tutte le 4 regole del campo analitico: tempo, ci vuole tempo; per appassionarsi, amore; a giocare nella vita (ma quale vita? Non la vita trasversale dal bambino tutte le fasi all’età adulta, ma la vita quotidiana, la quotidianità) con la propria mancanza d’essere, questo è il sapere.

“L’opera d’arte è incontrata nella vita quotidiana all’improvviso, come ebbe a dire Paul Klee nel suo diario: “La vita mia mi avvince”. Nel suo diario, come sottolinea molto bene suo figlio Felix:

«In questo suo documento troviamo uno stretto rapporto di tutte le manifestazioni della vita quotidiana».

«Innanzitutto l’arte della vita … occupazione materiale, la plastica».

«Ho per le imperfezioni maggiore comprensione che per le più apprezzate meraviglie dell’arte».

Questa mancanza ad essere – che è strutturale al soggetto – si rivela sfidando dunque la vita a giocare senza preavviso e senza costruzioni aprioristiche, mentre la quarta regola ci dice che ciò che si incontra solo a posteriori diventerà un sapere, un sapere sul reale, irreale e dunque surreale. Dunque l’oggetto della sfida è ciò che inquadra l’incontro di un soggetto mascherato che guarda, ma che non può sfuggire a ciò che lo riguarda e rimanda alla dinamica interna soggettiva tra il surreale che trabocca di emotività, di ricordi, e dolori e ciò che lo vuole contenere attraverso, una parola piena (significante) oppure la scrittura. La scrittura è un altro modo di introdurre la parola piena sul versante del segno del significante.- Insomma l’oggetto, opera d’arte, è tale per tutti coloro che senza paura giocano nella vita quotidiana ad incontrare la propria soggettività rimossa, rivelata a posteriori attraverso un suono, un gesto, un tratto, un segno e sanno farsene qualcosa..”.

Guidi: vorrei aggiungere prima che mi dimentichi, che a breve uscirà un terzo libro che riguarda l’esperienza di incontro tra Giovanna Cardini con l’opera di Marina Abramovic. Si tratta di un libro in cui viene chiarito come nel caso della Abramovic ci troviamo in un campo diverso, non nel campo dell’arte, ma della performance. La performance non è arte, e perché? Perché per che ci sia arte, bisogna che ci sia un quadro, un quadro che inquadri. Nel caso della Abramovic che cosa viene inquadrato? Pensate alle sue performance e rifletteteci! Per fare ciò che realizza Abramovic ci vuole una preparazione fisica straordinaria, è innegabile. Un pittore invece, come Van Gogh, troviamo l’immediato: le percezioni messe nei quadri, nel quadro. Quella è arte! Ed è importante distinguerla dalla performance. Un alpinista che si arrampica su per le vette montane, oppure un subacqueo che realizza esperienze bellissime, straordinarie non hanno niente a che vedere con l’arte. E’ performance, cioè una “performazione” di un corpo che si mette al servizio, vuol dimostrare la sua fisicità, cioè la sua totale padronanza corporea. Dal mio punto di vista quella non è arte. Il terzo volume realizzato da Giovanna Cardini è nato in questo discorso.

Marina Abramovic ha costruito il suo Metodo Abramovic attraverso dieci performance, e non lo ha fatto con pittori o professionisti, ma ha messo a lavoro gente per sperimentare i sistemi contro l’ansia. Uno di questi sistemi in particolare è quello che ci fa stare ore e ore a dividere con le mani i chicchi di riso in un luogo, uno per uno. Questo è il metodo, ma non è arte, non c’entra niente con l’arte, ma si tratta di un sistema di terapia cognitivo comportamentale applicata – definiamolo così – mascherato da arte o da performance, e quindi non c’entra nulla. In quel caso l’ansia può anche andar via, però quando interrompi sicuramente ritorna, oppure ne viene ancora di più perché uno si accorge che ciò che sta a fare ha poco senso. Inevitabilmente poi qualcuno si chiede: “Ma che sto facendo?”. Insomma, questo è il metodo Abramovic e tempo fa c’era un articolo sul quotidiano La Repubblica con tutti coloro che hanno messo in gioco esercizi di questo tipo. Quindi il corpo seduce, si propone come soggetto capace di controllare il mondo e controllare gli altri, perché gli altri che guardano vengono attirati da questo corpo, da questa presenza che si muove. Questo è un corpo che seduce, ma non un corpo che crea, non c’è invenzione o creatività, ma c’è una programmazione anticipatoria. L’arte invece è proprio il gesto dell’improvviso, l’istante dello sguardo, la presa immediata, un incontro assolutamente inedito. Picasso chiariva: “Io non cerco, trovo”. Trovare vuol dire che ho già cercato, ma ciò che ho cercato è dentro di me perché l’ho perduto e per questo lo vado a trovare. È questo il meccanismo dell’arte. Secondo me non si può uscire da questo punto, e se ne usciamo tutto diventa un’altra cosa. Un’altra cosa straordinaria, ugualmente importante, come pare a voi, ma sempre un’altra cosa. Siamo purtroppo nei tempi moderni, siamo in tempi non dell’arte, ma della performance, e si va sempre di più in questa direzione. Performance che significa esaltazione del corpo che seduce in mirabolanti imprese e con un pubblico che guarda o in presenza o in assenza. Difatti, teniamo presente che il video di Marina ha riscosso circa tre, quattro milioni di vendite in formato dvd, e tutti a guardare quello che accade. Questa è la performance. Nello studio dell’artista non c’entri con la telecamera, no, è una cosa intima, è una cosa privata: più privata e più intima è, e meglio è. È appunto il sacro, il momento in cui l’artista lavora. Non può, non deve essere condiviso con nessun occhio che guarda. Personalmente la vedo così, non so voi…

Intervento: il campo analitico ci dice questo…

Guidi: certo, infatti l’arte e la psicanalisi sono vicini. In più, nella psicanalisi, c’è quel sapere che l’artista produce, ma non lo sa. L’artista è come se fosse il paziente, nell’analisi porta l’inconscio, quindi l’inconscio produce, lavora, gode, ma non sa niente, e l’analista allora indica la strada all’incontro, rivolgendosi al paziente che porta l’inconscio aiutandolo a decifrarlo. Nel lavoro l’artista invece c’è la costruzione del proprio inconscio messo sulla tela in perfetta solitudine. In un secondo tempo ci sarà qualcun altro che eventualmente lo interpreterà. Comunque, in definitiva, ci sono profonde analogie di lavoro e di metodo tra la psicoanalisi e l’arte. Vorrei leggervi questo:

“In un urto-incontro, i significanti appartengono ad ambe due gli infanti (?). I due significanti che Giovanna Cardini mette in evidenza sono quelli che hanno fatto eco nell’urto con il quadro “Terrazza dell’Harles” di Van Gogh, appeso nello studio del nonno Vincenzo. Un eco che ha preso corpo, però, nell’interessa a posteriori di Giovanna per l’opera e la vita di Van Gogh attraverso la lettura delle lettere a Teo.”

Quindi anche Van Gogh come artista ha prodotto parole, perché anche gli artisti scrivono diari, come Paul Klee, come abbiamo visto. Quindi l’occhio non basta, ed è necessaria la parola che commenti e che aiuti l’altro a capire cosa c’è scritto in quel quadro. Ecco, se si guarda l’arte preistorica, se osserviamo un paio di corna dipinte sulla roccia che a noi possono sembrare una “U” in realtà sono le corna di un animale. Chi ha realizzato quel segno e non ha parola per spiegarlo, l’altro che va a visitare le grotte che osserva può apprenderlo e interpretarlo quel segno come vuole. Quindi senza la parola che accompagna il gesto l’arte sarebbe “monca”, non completa in nome della verità, perché appunto la verità è questa, la verità del sacro è qualcosa, come ho detto prima, che riguarda un corpo incarnato. Puntualizzo quindi che non mi sto riferendo al sacro in senso religioso. Ma la parola non può essere esaustiva, perché la parola è “impossibile, addirittura blasfemo commentare un’opera d’arte”. Quindi la parola deve accompagnare il gesto, lo sguardo e l’occhio, o l’incontro, ma non si può dire che la parola sia esaustiva dell’incontro stesso. Perché, e questo è importante sottolinearlo da parte di un filosofo francese che è molto legato a Jacques Lacan, Alain Badiou, dice: «E’ questo il gesto fondamentale di conquista del reale: dichiarare che l’impossibile esiste». Questo è il punto, ovvero la parola non può esaurire, anche se rispetto all’occhio ha molte più proprietà di elaborazione e di commento, ma non può toccare il reale, perché il reale è impossibile, ci si può solo avvicinare.

L’altro punto dell’incontro con l’altro maestro assoluto della luce che è Vermeer in cui dice, si dice qua: «Ma non è tutto qui nel quadro». Infatti, come ricorda Ivana Carrici citando Machado: «L’occhio che vedi». Ovvero: nel quadro c’è un punto luminoso da dove il soggetto si da a vedere ciò che appare, non è occhio perché tu lo vedi, ovvero lo stesso punto luminoso è una trappola che omette, fenomenologica, lineare perché è espansa nel quadro, è occhio perché ti vede, cioè il punto luminoso non si irradia nel quadro per mostrare meglio il quadro stesso, ma eccede il quadro, esce dal quadro e va ad incontrare questo oggetto che, guardandolo, si sente riguardato, ovvero implicato soggettivamente senza sapere da che cosa e da dove ha origine tale implicazione. Questi sono due punti che legano tutta la questione della sfida. Bene, io ho finito… provvisoriamente, non si finisce mai..

Cardini: domande?

Guidi: se avete capito meglio, bene, se non avete capito fate delle domande, vi rispondo cercando di chiarire..

Cardini: quando in piena crisi esistenziale sono andata per la prima volta ad un seminario sulla psicosomatica all’Istituto Francese di Firenze … quindici anni fa se non sbaglio …

Guidi: si, nel 2001 …

Cardini: mi ricordo che, completamente a digiuno di qualunque termine di cultura psicanalitica, uscii da quel seminario che non avevo capito niente di quello che Alessandro Guidi aveva detto. Era come se avessi osservato un quadro informale, o un film muto, non lo so. Ma avevo visto qualcosa, perché sentivo che qualcosa aveva colpito il punto giusto, e non potrei dire esattamente cosa, non so … parole, suoni, non potrei dirlo con esattezza, però era riuscito a pungermi nei punti giusti e questo mi ha permesso di entrare in questo mondo apparentemente complicatissimo del sapere psicoanalitico. In realtà, come ha chiarito nel suo ultimo Seminario La psicanalisi nella vita quotidiana il dott. Guidi: “La psicanalisi è nella vita quotidiana”.

Guidi: il flato è lì, come dice Michel Deguy, il flato è nelle piccole cose, nel progetto, nei ricordi. Michel Deguy è un filosofo francese straordinario.

Cardini: anche questa è arte, ovvero il non capire veramente niente di un’opera, ma essere comunque colpiti e riguardati.

Guidi: non a caso Michel De Certeau, altro grande filosofo francese, dice che il quotidiano è un’invenzione, e Jacques Lacan afferma che: “La donna è un’invenzione continua e quotidiana”. Ci sarà un nesso? De Certeau è stato un gesuita, amico di Lacan che prende spunto da De Certeau. Ci sono dei collegamenti.

Cardini: è l’incontro, con questa strana sensazione … veramente. Per me allora era una situazione così particolare al punto che ripensandoci, mi viene una grande commozione. Il risultato di questo incontro è stato per me l’entrare nel mondo dell’arte. Quindi aprire questa galleria d’arte, iniziare a scrivere, a pubblicare, ed ho capito poi, nella mia pratica, sia nella scrittura, sia nella mia pratica di counseling come nel lavoro, che questa è la via. Questa è la via, non c’è niente da fare, perché nel momento che s’incontra il disagio, il mettersi in gioco significa anche mettere in gioco la propria creatività, il talento che tutti noi abbiamo. E’ inutile continuare a dire che il talento sia una cosa per pochi e che quelli che ce l’hanno e l’esercitano diventano magari gli artisti famosi. È una scusa. Dire: “Ma io non ce l’ho la creatività, non ce l’ho il talento”, è solo una scusa. Invece ce l’hai, ma il problema è che trovi mille scuse per non metterti in gioco.

Guidi: Platone lo chiariva: “Ognuno ha, dentro di sé, due strade nella vita: o diventare un pittore o uno scrittore”.

Cardini: o tutti e due.. nel migliore dei casi, come Van Gogh.

Guidi: e questo non vuol dire diventare Van Gogh o Vermeer! Si tratta di incamminarsi lungo due strade di libertà: due strade di libertà e di verità personali. Due nutrimenti dell’anima straordinari. Ovviamente, a mio parere, il terzo è il campo analitico perché dipingere e scrivere dentro al campo analitico è una cosa, ma fuori dal campo analitico è un’altra cosa. È come se mancasse appunto una visione, una rappresentazione orgiaca, dionisiaca. Ovvero: c’è sempre il caos pulsionale, ma anche un’organizzazione. Quindi un caos organizzato. Perché ci sia un caos organizzato bisogna che ci sia un quadro, un campo di riferimento che orienti questo caos. Questo è importante.

Pratelli: avrei una curiosità! Se ho capito, e spero di aver capito qualcosa, quando si parla dell’opera d’arte non si parla effettivamente dell’opera d’arte, ma si parla della propria soggettività. Cioè, l’arte diviene una specie di “scusa”. Se parlo a proposito di un quadro, non parlo del quadro, ma parlo di me in relazione al quadro e quindi, tornando a quello che diceva Duchamp, è quasi l’opposto, cioè l’occhio è soltanto il mezzo che dà la possibilità di interrogarsi, ma la parte importante, se così si può dire, viene dopo con la parola.

Guidi: esatto! Duchamp aveva paura di questo e infatti che cosa ha fatto? Ha costruito una cosa precisa e molto particolare che si chiama ready-made, ovvero la famosa fontana di Duchamp che poi è un orinatoio. Questa è l’opera d’arte e lo dice lui stesso in una lettera nel ’13: “Ebbi la felice idea di fissare una ruota di bicicletta su uno sgabello da cucina e di guardarla girare”. Questa è la sua opera d’arte. “Qualche mese dopo comprai una riproduzione a buon mercato di un paesaggio invernale di sera che chiamai “farmacia” dopo aver aggiunto due tocchi, uno rosso e l’altro giallo, sull’orizzonte. A New York, nel ’15, comprai, in un emporio, una pala da neve su cui scrissi “anticipo per il braccio rotto”. È più o meno in quel periodo che mi venne in mente il termine ready-made per indicare questa forma di manifestazione”. Poi uno dei ready-made più famosi è quello di Rembrandt: “Servirsi di un Rembrandt come tavola da stiro”. Che vuol dire? Significa che Duchamp ha “tirato” fino al limite la questione dell’oggetto e dell’indifferenza dell’oggetto. Una fontana o una ruota di bicicletta messa lì, in bella mostra, non da nessuna emozione, per cui è difficilissimo, quasi impossibile, che chi guarda questa ruota possa dire: “Mi colpisce perché mi riguarda”. Ed è questo che Duchamp vuole rappresentare, ovvero il nostro trovarci in un’epoca dove l’oggetto mercificato feticcio destruttura la soggettività. Vuol dire mettere in risalto questa dimensione interiore del soggetto, questa sua repulsione interna. È l’Io quindi che guarda questo oggetto, che si esalta in uno specchio, nella grande maschera. Ma il soggetto interno, la parola vera, oggi viene come “tassata”. Quindi Duchamp ha fatto un’operazione importante perché rappresenta con il ready-made quella che è la modernità oggi, prendendo un po’ per i fondelli, secondo me, tutto il mondo intero. È questa l’operazione che ha realizzato Duchamp, da ingegnere … non so se è chiaro?

Pratelli: si, certo…

Guidi: Duchamp ha come detto: “Che cosa faccio io con questo oggetto che creo? Interrompo completamente il rapporto fra il soggetto, l’interno e l’oggetto. L’oggetto non mi deve dare più nessuna emozione, è indifferente”. E’ come se mettessi questa bottiglia nel mezzo di questo tavolo e chiedessi: “Chi ne è rimasto colpito da questa bottiglia?”. Una bottiglia di plastica, tutti lo sanno, e non succede nulla. Non succede niente, accade soltanto l’Io che si riflette nell’oggetto. L’Io si riflette e afferma: “Ah, bella forma!”, oppure: “Quanto costa?”, o ancora: “Ho sete, vado a bere”. Rimaniamo sempre sulla superficie, la maschera. Ma la soggettività interiore, la parola vera, ovvero quel divario necessario per interrogarsi, tutta la parte storica del soggetto che guarda, che è inquadrato nell’incontro in quanto è riguardato, questo viene completamente tassato. Ecco questa è l’operazione di Duchamp: un’operazione paradossale, molto ironica, sarcastica e provocatoria.. ecco, provocatoria!

Pratelli: avrei un’altra domanda da farle in quanto ha parlato di Platone quando diceva che la parola serve anche per supportare l’opera e mi è venuto in mente che nel Fedro Platone mostra, in relazione alla scrittura, che la parola, il segno scritto, non può portare quel senso che colui che la scritta voleva trasmettere con quest’atto. Questo perché, quando lo scrittore muore, se permane la sua opera, non c’è più questo padre a sostenerla che è appunto colui che ha parlato, che ha scritto, che ha messo il segno della sua parola. Quindi può essere interpretata in maniera erronea. Lei però ha detto che, comunque, ad esempio in certe opere può non esserci la parola di colui che l’ha realizzata, e anche se ci fosse il segno, a questo punto, a sostenere questa parola sarebbe, diciamo nell’ottica di Platone, per quanto si possa dire “l’ottica di Platone”, sarebbe un regresso all’infinito, un circolo vizioso perché comunque non si arriva mai, cioè la stessa parola non è sostenuta da niente..

Guidi: Platone aveva la fissazione per l’iperuranio: “Bisogna arrivare in cima, lassù in cima dove sono le idee!”. Ma se Van Gogh ha scritto settecento lettere – se non di più – al fratello e parla della sua vita e delle sue opere, anche se Van Gogh non c’è più è quella stessa parola un sostegno alle sue opere. Ecco il collegamento quindi. Paul Klee ad esempio, quando parla delle sue opere, anche se il soggetto, il pittore, è morto, rimane la parola stessa che non è un racconto astratto, ma si tratta di una parola che accompagna le proprie opere. Per cui è un grande materiale a cui attingere..

Pratelli: però può essere fuorviante nell’ottica platonica..

Guidi: è certamente fuorviante perché c’è questa idea di rimandare sempre a questa entità primaria, il che significa che ci vuole sempre qualcuno che la supporti in carne ed ossa perché la scrittura, secondo Platone, è secondaria alla parola.

Pratelli: bisogna anche tenere di conto che in Platone chi parla è Socrate, che non ha scritto niente e quindi è un’ottica definibile come di parte.

Guidi: infatti, per giustificare il fatto che, dal mio punto di vista, Platone ha creato Socrate, cioè che Socrate sia una invenzione di Platone per giustificare quello che tu hai detto, doveva dire inevitabilmente questo, per forza. Però la scrittura, le lettere, i diari di un pittore, che accompagnano le proprie opere sono, documenti fecondi che, non sono e non possono essere esaustivi perché è la stessa storia del pittore. Poi il critico o chi incontra il quadro può avere una sua un’opinione. Giovanna Cardini ad esempio, che ha incontrato l’opera di Van Gogh, ha chiaramente un punto personale che fa riferimento al quadro di Van Gogh di cui si ricorda. Quello è un punto personale e da lì inizia l’incontro con il pittore. In un secondo momento poi, andando a leggere le lettere ci sono significanti che comunque anche questi riguardano il soggetto che ha incontrato in un punto preciso, che ha fatto scattare la scintilla fra Van Gogh e Giovanna Cardini, e questo vale anche per Vermeer con la questione femminile che rappresenta nelle sue opere. Quindi c’è un punto che è un punto utopico, che Lacan definisce punto di capitone, un punto diometico in cui il soggetto che osserva il quadro e vi va a depositare una parte di se stesso che il soggetto ritrova nel quadro. Quindi il quadro è come se chiamasse il soggetto a quella parte che è iscritta nel quadro stesso. Ecco il punto di congiunzione e d’incontro. Poi la parola di Van Gogh a commento del quadro permette di ampliare questo incontro, ma quello che conta è l’incontro, il punto d’urto, d’impatto, cioè l’incontro, l’urto che è il reale. Ecco, su questo punto, la parola, non può dire tutto del reale, è impossibile, ma può circondare, può elaborare a partire da…

Pratelli: perché il reale è l’impossibile…

Guidi: è impossibile. Però va dichiarato, come dice Alain Badiou.

Pratelli: la ringrazio.

Cardini: fin dall’inizio ho detto che Merlino Bottega d’Arte sostiene l’arte come strumento di espressione di sé, ma al tempo stesso anche di conoscenza. L’uditorio, fin dai nostri primi incontri è come rimasto un po’ così, interdetto, dubitante. .. ma è questo poi alla fine il senso…

Guidi: ma perché tu sei iscritta nel campo analitico..

Cardini: perché le posizioni possono essere diverse. Uno si mette sempre nella posizione dello spettatore, oppure di attore, dove mi esprimo e quindi faccio l’arte. Oppure sono spettatore e usufruisco, godo dell’arte che guardo, o che ascolto, o che leggo. E qui la posizione è ancora diversa: io utilizza l’arte, quella dell’altro e la mia, per conoscermi…

Guidi: andiamo a toccare l’inconscio. Abbandonarsi all’inconscio!

Cardini: per conoscere il mio desiderio..

Guidi: che è l’unica legge per Lacan: il desiderio è Legge.

Cardini: il resto è?

Guidi: il resto è silenzio.

Intervento: però un metodo che mi viene in mente è che nell’incontro di qualcuno con l’arte, con qualsiasi cosa, alla fine diventa strumento per conoscere se stessi.. ma ad ogni caso l’incontro è già un tradimento.. in qualche modo..

Cardini: tradimento.. un passaggio?

Intervento: si, però appunto c’è Io da qualcosa che vedo … è dato quello. C’è sempre un Cristo che dice: quando nel momento in cui io incontro quella parola, incontro quel quadro, sto traducendo in base al mio percorso personale, al mio bagaglio, questo dato; nella traduzione, che è sempre un tradire..

Guidi: si, però non è un tradire immaginario, è un tradire simbolico.. meno male. Se no non ci sarebbe cultura da Platone in poi..

Intervento: no, certo, però dico l’incontro in quel momento lì, avviene comunque un tradimento di qualcosa perché nel momento in cui comunque io ricavo qualcosa per me da qualcosa già dato, è quello..

Guidi: si, ma è positivo..

Intervento: no no, ok, però quello che mi viene in mente poi alla fine è questo..

Guidi: si, ma intanto cominciamo a sottolineare l’incontro e la positività che comunque ci sia un soggetto che incontra un quadro, un testo di musica… e viene riguardato. Quindi è una fortuna che ci sia quel quadro…

Intervento: no no, assolutamente…

Guidi: dopo che ci sia una traduzione… questo va bene, anzi, perché vuol dire che c’è un’elaborazione che è un andare avanti, che non si rimane sull’immaginario emotivo, c’è questo incontro (“sono stato affascinato… e rimango lì”), tu non rimani lì, tu vai oltre. È l’andare oltre, perché il tradimento vuol dire andare oltre, se no si rimane sempre fissi e non si va da nessuna parte.

Intervento: il tradimento nel senso che uno viene consegnato a qualcosa affinché compia un gesto che è molto reale e si ispira all’immaginario perché è una scelta, dopo l’incontro niente è più come prima… quindi incomincia un’altra storia…

Guidi: certo, per questo che la questione dell’empatia con la psicanalisi non c’entra proprio nulla. L’empatia per me è il massimo dell’idiozia, perché è come dire: “Io mi metto nei panni dell’altro”.

Intervento: non sei l’altro.

Guidi: non sono l’altro, appunto. Quindi mi immagino io di entrare nei panni dell’altro, ma sono sempre io dentro me stesso che immagino, quindi non c’è incontro. C’è incontro se l’altro mi tocca e mi riguarda, allora sì che c’è qualcosa di importante e mi permette di andare avanti…

Fiorenza: e il tradimento come avanzamento simbolico rispetto alla tradizione?

Guidi: la tradizione e il tradimento sono due… perché la tradizione vuol dire come celebrazione di un incontro preso come un rito, ma non c’è elaborazione; mentre nel tradimento traduco quello che è tutta la portata dell’incontro, traduco altrove e quindi…

Cardini: genero il nuovo.

Guidi: genero il nuovo, invece la tradizione non succede nulla… eh, importante la domanda…

Cardini: bravo Tommaso, è vero. Bella domanda..

Intervento: quindi l’incontro con l’alterità, con altro, è sempre assolutamente immanente, quindi quell’altrove è sempre quell’elemento che si definisce proprio nell’atto del divenire dell’incontro, quindi ogni volta è cambiare. La trascendenza non esiste più..

Guidi: è una trascendenza nell’immanenza…

Intervento: è un trascendere sempre qui e ora…

Guidi: sì, Dio è inconscio. Oppure come diceva Spinoza: “Deus sive natura”, Dio è natura, natura piena in me, dentro di me. Quindi il punto in cui sento la natura, la sento, mi chiama, è Dio che è la natura che mi chiama… è il punto della natura da cui sono chiamato e guardato…

Intervento: dipende da… non c’è bisogno di uscire da…

Guidi: certo… Spinoza poi nell’etica “Deus sive natura”, dice: è il desiderio. Desiderio in quanto essenza dell’uomo fondato sulla mancanza. Lacan infatti riprende Spinoza, non a caso…

Cardini: tutto a posto?… possiamo chiudere in bellezza…

Guidi: sì, è una bellezza diversa: non è più la bellezza estetica, anzi “estetistica”, come dice Lacan, è una bellezza che è formata da un richiamo ad un aldilà, un aldilà della bellezza stessa, quindi non si può riposare troppo sull’immagine, ma l’immagine è una maschera che va letta, elaborata attraverso la parola. Quindi le cose sono collegate.

Intervento: quella è cosmetica dell’estetica.

Guidi: cosmetica sì, certamente. Nel campo della salute esiste la diabetica, invece che l’etica.. appunto è centrale la diabetica, non ce l’hanno tutti la diabetica, quindi l’eccesso, quindi l’estetistica, la cosmetica è il trucco, il mascherone, quindi è una paura, la morte, la vecchiaia che bisogna per forza mascherare.

Cardini: bene, Merlino Bottega d’Arte ora chiude, però ci sono altre conferenze, vi segnalo quella del prof. Cardini,… dovere di figlia… no lo faccio volentieri. Comunque vi invito a guardare il programma. Grazie.

 

NOTE:

[1] A. Guidi, Il Piccolo Hans, p.32.

 

***

 

Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ricorda che tutti gli articoli presenti all’interno di questo sito possono essere liberamente consultabili e scaricabili. In caso di utilizzo del nostro materiale sarebbe onesto, nonché eticamente corretto, contattare gli autori e citare la fonte. Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ringrazia e augura buona lettura. 

Download PDF
Recommended Posts
Contact Us

We're not around right now. But you can send us an email and we'll get back to you, asap.

Not readable? Change text. captcha txt

Start typing and press Enter to search