Arrigo Cappelletti

 In Etica, Filo-sofia
Download PDF

DI ANDREA CARNESECCHI E FRANCESCO PRATELLI

Che influenza ha avuto la filosofia nella sua vita?

È curioso, in effetti questa è la prima domanda che era giusto aspettarsi in quest’intervista ed è proprio quella a cui non avevo pensato. Comunque, per dimostrare che la filosofia mi è servita a qualcosa devo a questo punto cercare di rispondervi con la massima onestà. Dunque, tornando indietro negli anni, già ai tempi del liceo leggevo libri di filosofia, in primo luogo Platone. Ero molto timido, diciamo che avevo dei problemi di inadeguatezza rispetto al reale e per questo mi chiedevo sempre: «Come posso essere all’altezza del mondo? Sono in grado di confrontarmi con esso oppure il mio destino è quello di rimanere chiuso in una stanza come Emily Dickinson, magari a scrivere poesie?». Questa mia chiusura l’ho risolta inizialmente attraverso la filosofia, perché mi offriva una sorta “modello della realtà”. Se devo essere sincero, visto che parlo con dei giovani filosofi, avendo sempre avuto una grande passione per i modellini, mi è spesso capitato di pensare alla filosofia come ad un qualcosa capace di darmi una sorta di “modellino della realtà”, qualcosa che in un modo o nell’altro mi permettesse di tenerla in pungo. Insomma, la filosofia mi permetteva di dire: «Realtà non mi fai più paura! Adesso ho un’idea di come sei fatta!». Ero costantemente alla ricerca di sicurezze e di certezze, per questo non avevo capito niente della fenomenologia del povero Enzo Paci, che consiste in un costante interrogarsi.

In effetti la filosofia più che rafforzare le certezze dovrebbe cercare di metterle in discussione…

Esattamente, è proprio il contrario di quello che credevo all’epoca! Ho frequentato la Statale di Milano all’inizio degli anni ‘70, anni di grande politicizzazione in cui si parlava addirittura di fare la rivoluzione. Chiedevo certezza e il marxismo e il leninismo erano perfetti per questo, perché mi fornivano un quadro della realtà già bello e pronto. Infatti, tra i filosofi, quello che al tempo preferivo era Hegel, con il suo “Spirito di sistema”, mentre quelli più problematici, più inquietanti, non li consideravo neppure. Insomma, la filosofia mi offriva un modello di realtà che mi dava la sensazione di essere all’altezza della vita e del mondo.

Poi, ad un certo punto, è subentrato il jazz, è nata in me la passione per questa musica così legata all’improvvisazione e al mettersi costantemente in discussione e forse si è trattato proprio di una reazione, di una risposta alla mia interpretazione troppo rassicurante della filosofia. In un certo senso, quindi, il mio è stato un processo inverso rispetto a quello che probabilmente vi aspettavate: non è stata la filosofia a portarmi verso il jazz, ma è il jazz che, fortunatamente, mi ha allontanato dalla filosofia. Grazie al jazz ho scoperto la vita, perché mi ha costretto a vivere i rapporti con gli altri, cioè a suonare con altri musicisti, a confrontarmi con pubblico, con i gestori dei club, etc. Mi ha insegnato a non vivere chiuso con i miei libri in una torre d’avorio, mi ha fatto scoprire l’interrogazione continua, l’arte di mettersi costantemente in discussione e quindi, paradossalmente, per me è il jazz ad essere stato una scuola filosofica importante.

Poi per carità, ho imparato moltissimo anche dalle letture, perché essendo un tipo molto ansioso, tendenzialmente sarei potuto essere proprio il classico consumista, e se sono riuscito ad arginare difetti come questo è stato proprio attraverso la lettura. Come diceva Wittgenstein, la filosofia deve aiutare ad essere una persona decente. Viviamo in un’epoca in cui si pretende di avere tutto, di consumare tante cose e il più rapidamente possibile, ma questo con alcune non può essere fatto e la lettura di certi testi ne è un esempio: ci sono dei libri che possono essere letti con una certa tranquillità e con un minor dispendio di forze mentre altri esigono una lettura attenta, calma, non frettolosa.

Comunque, quando ho cominciato ad improvvisare, ho pensato che avrei avuto nuovamente bisogno di strutture su cui basarmi, ma ho scoperto quasi subito che l’aspetto affascinante dell’improvvisazione è il fatto che queste strutture possono mutare, che sono elastiche e che quindi potevo in qualche modo ricrearle e ricostituirle proprio a partire dallo stesso processo dell’improvvisazione. È stato un gioco strano a cui ho cercato di rispondere con la massima onestà possibile, ragionando su di me in tempo reale con tutte le contraddizioni del caso.

Dunque ritiene che per ottenere dei risultati nel proprio lavoro sia necessario problematizzare continuamente ciò che si è di volta in volta ottenuto, come si dovessero “distruggere” continuamente le proprie certezze?

Forse l’espressione “distruggere” non è esatta, perché non è che i punti a cui si è arrivati non abbiano nessun valore. Il termine “distruzione” può suscitare vari equivoci, mentre invece si tratta di una verifica costante e di non accontentarsi delle conclusioni di volta in volta ottenute. Un esempio? Quando raggiungi determinati risultati, magari registrando un disco che ti lascia talmente soddisfatto da dire: «Ormai non posso fare niente di meglio», accade poi che la volta successiva, cercando di ripetere esattamente ciò che si è fatto in quella precedente, viene fuori un disastro. Non riuscirai mai ad imitare ciò che hai già fatto, la freschezza della prima volta è inimitabile! Per chi improvvisa questo è un imperativo, la cosa più importante di tutte: la prima volta è sempre la migliore. Paul Bley diceva: «Sound check is the first take». So che molti jazzisti non sono d’accordo con questa affermazione e preferiscono concentrarsi maggiormente sulla preparazione e sulle prove, ma questa non è la mia idea di improvvisazione.

Penso che per la filosofia potrebbe valere la stessa cosa. Non è che il concetto a cui sono arrivato o la verità a cui momentaneamente sono approdato non abbiano nessun valore, però devono in qualche modo essere rivissuti, riverificati, rimasticati, perché nel momento in cui li riproduco non saranno mai gli stessi a cui ero arrivato attraverso un processo complesso e tormentato. Devo tornare a rivivere il processo che mi ha portato a quella verità, non solo la verità in sé per sé. Quindi né condanno né distruggo tutte le verità a cui sono arrivato, ma cerco di riverificarle e di raggiungerle nuovamente attraverso un processo simile ma non uguale.

 

Intervista realizzata il 12/04/17

Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ricorda che tutti gli articoli presenti all’interno di questo sito possono essere liberamente consultabili e scaricabili. In caso di utilizzo del nostro materiale sarebbe onesto, nonché eticamente corretto, contattare gli autori e citare la fonte. Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ringrazia e augura buona lettura. Il testo completo dell’intervista sarà inserito in un volume di prossima pubblicazione.

Download PDF
Recent Posts
Contact Us

We're not around right now. But you can send us an email and we'll get back to you, asap.

Not readable? Change text. captcha txt

Start typing and press Enter to search