Giuseppe Panella

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DI ANDREA CARNESECCHI E FRANCESCO PRATELLI

Ciò che sentiamo di più opprimente nei nostri percorsi di studio è l’esaltazione del sapere nozionistico a scapito della creatività…

Certamente. In una società come quella odierna tutto viene assorbito, sminuito, ridotto a spettacolo e ad intrattenimento. Guy Debord la chiama appunto “società dello spettacolo”, nel senso che anche la cosa più proibita, più trasgressiva e più violenta alla fine viene riassorbita all’interno del contesto della merce. Tutto si riconduce all’idea che la conoscenza sia essa stessa una merce, un qualcosa che possa essere venduto e barattato. Ma se la conoscenza può essere manipolata e strumentalizzata, il sapere invece no, perché il sapere, così come la creatività, non è una merce. Se anche il creativo può in seguito trasformare il risultato della propria creatività in merce, ciononostante la creatività è quanto di più rilutta all’idea della mercificazione.

Il problema fondamentale è che un soggetto che voglia porsi come autonomo rischia di scontrarsi con l’impossibilità di superare i vincoli che lo bloccano, anche se quelli che erano i valori e le condizioni tradizionali di esistenza che sorreggevano l’uomo, sembrano essere stati cancellati. «Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria» diceva Marx ne Il Capitale e Zygmunt Bauman parlava a sua volta di “modernità liquida”, di “società liquida”, nella quale tutto si scioglie e si vanifica ed in cui, più che trovarvi la libertà, vi si annega. Se il mare può apparire come il luogo della libertà, dove è possibile nuotare liberi, in questo caso è vero piuttosto il contrario: si affoga nella liquidità, si affoga perché manca un punto di appoggio e vi si rimane invischiati come il cormorano nel petrolio di quella famosa fotografia al tempo della Guerra del Golfo.

Quali pensa possano essere le vie d’uscita da questa situazione?

Se siamo costretti a vivere nella liquidità, allora bisogna trovare il modo di uscirne, qualcosa a cui aggrapparsi. Una via di uscita può essere appunto la rivendicazione della propria creatività e, quindi, la difesa della propria singolarità. Non si tratta di una novità, già la Scuola di Francoforte sottolineava questo punto, ma oggi la situazione è peggiorata ancora. Con la rivendicazione della propria soggettività e creatività; intendo la volontà di dar vita a dei percorsi che non siano necessariamente calcolabili e fungibili, che non siano riconducibili alla sola ragione calcolante, ma che siano invece dei veri e propri percorsi di rottura. Un tempo ti iscrivevi alla Facoltà di Filosofia, studiavi, leggevi Hegel e Cartesio, poi andavi a fare il concorso per la cattedra dove ti chiedevano tutto quello che avevi studiato e così diventavi a tua volta professore. C’era un meccanismo, una sorta di patto d’accoglienza per il quale, se avevi determinate conoscenze, attraverso il confronto con altri filosofi, venivi riconosciuto fra pari. Questo adesso non succede più, questo meccanismo si è rotto e l’ascensore sociale è andato in panne. Se ad oggi la situazione è così scomoda dipende dal fatto che non puoi più aspettarti di avere un punto di approdo stabilito alla fine del tuo percorso, ritrovandoti così di nuovo in alto mare. D’altro canto, però, proprio perché non ci sono più parametri definiti e non si è più costretti a seguire gli schemi che ci hanno insegnato si può venir proiettati in una dimensione di possibilità assoluta.

Tradizionalmente, in filosofia, è il soggetto che definisce l’oggetto e se oggi invece è l’oggetto che definisce il soggetto, allora occorre indagare come questa relazione si sia costituita. La posta in gioco è quella di creare soggetti consapevoli e autonomi, che vivano la loro totale liberazione dai valori tradizionali in maniera tale da porsi come ponte fra una situazione del passato che non c’è più e una situazione del futuro che non c’è ancora. In questo Nietzsche è maestro quando dice che l’uomo è un ponte fra la scimmia e il superuomo. Ecco, oggi noi siamo in questa situazione, siamo il ponte, poiché non siamo ancora il superuomo e non possiamo pensare ad esso, ma non siamo nemmeno la scimmia.

Dunque il compito della filosofia oggi potrebbe esser quello di un ritorno alla “lezione socratica” della corruzione dei giovani?

Sì, ma più che alla lezione socratica penso a filosofi non socratici, come Nietzsche per l’appunto.

Perché proprio Nietzsche?

Perché è in Nietzsche che si trova l’idea di uno sguardo capace di andare oltre l’orizzonte presente e di antivedere il futuro. Ma questo futuro è già all’interno del presente, è inscatolato all’interno del presente ed è lì che va cercato, poiché limitare lo sguardo soltanto al futuro, in una proiezione utopica e idealista, non è sufficiente. Si tratta quindi di analizzare il presente non soltanto come una pura e semplice registrazione di ciò che accade, ma di anticipare i terremoti, le faglie e le rotture come fa il sismografo.

Così com’è la situazione non può durare: o la liquidità si trasforma, paradossalmente, in un “tutto solido” – e ciò significherebbe dittatura, morte e fine del pensiero – oppure questa liquidità dovrà in qualche misura permettere a delle isole sommerse di affiorare dalle profondità. Ecco, credo che la filosofia sia quest’isola, o meglio, credo che ne sia la circumnavigazione. Nell’isola poi bisognerà darsi da fare, costruirsi degli strumenti un po’ come fa Robinson Crusoe che prende i resti del naufragio della nave, portati a riva dalla marea, e con quelli sopravvive. Gli oggetti che Robinson recupera non sono importanti di per sé ma, in quanto costituiscono la sua stessa esperienza, sono tanti piccoli frammenti riuniti attraverso la sua capacità di farne qualcosa. Questa è appunto l’esperienza, e il filosofo è come se si trovasse su un’isola deserta.

Poc’anzi ci ha detto che un certo atteggiamento nei confronti della filosofia rischia di trasformarla in un “rituale vuoto”. Crede che questo rischio sia condiviso anche da altre discipline o che invece sia specifico soltanto della filosofia?

Penso che il rischio che corre la filosofia di diventare un “guscio vuoto” sia un problema che riguarda tutti gli ambiti del sapere perché, in mancanza d’innovazione, ognuno di essi è soggetto a questa possibilità di svuotamento. Se non c’è un salto in avanti anche la matematica, la fisica, la chimica e via dicendo, diventano dei gusci vuoti, ovvero ciò che un grande filosofo della scienza come Imre Lakatos ha definito “scienza normale”. Anche la filosofia, in mancanza di una rottura, corre il rischio di diventare una scienza normale, cioè qualcosa di acquisito una volta per tutte, che procede per moto proprio. Oggi nella filosofia manca questa rottura e ciò si vede chiaramente nella filosofia accademica, dove si fa palese la mancanza dell’impeto necessario alla vera ricerca. In realtà, forse, la ricerca filosofica avviene in altri ambiti, come ad esempio nell’arte, dove la creatività è più stimolata ed è possibile fare tutti gli esperimenti che si vuole, oppure nel laboratorio sociale, nel quale si cerca di vedere dove, nella società, possano trovarsi i germi del cambiamento.

La filosofia, come un animale che cambia pelle, deve cercare di liberarsi e trovare qualcosa che le stia al di fuori. Un ambito interessante, ad esempio, è quello della sociologia non accademica, dove si tratta di verificare quei livelli che il sapere “acquisito” non ha ancora colto. In definitiva, possiamo dire che la filosofia è un gesto, un gesto liberatorio attraverso cui far emergere se stessi.

Intervista realizzata il 29/01/17

Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ricorda che tutti gli articoli presenti all’interno di questo sito possono essere liberamente consultabili e scaricabili. In caso di utilizzo del nostro materiale sarebbe onesto, nonché eticamente corretto, contattare gli autori e citare la fonte. Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ringrazia e augura buona lettura. Il testo completo dell’intervista sarà inserito in un volume di prossima pubblicazione.

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