Marco Filoni

 In Filo-sofia
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DI ANDREA CARNESECCHI E FRANCESCO PRATELLI

 

Per tornare alle radici della sua passione, come ha iniziato ad amare la filosofia?

Tutto nasce, come credo accada a molti, da una serie di letture adolescenziali o tardo adolescenziali, tra le quali ricordo in particolar modo Nietzsche, uno dei primi autori che ho letto e amato molto. Da bravo ragazzino adolescente “pseudo-rivoluzionario”, leggevo anche Marx e il mio professore di filosofia del liceo, essendo cattolico, mi diceva che invece avrei dovuto leggere Sant’Agostino e altri autori simili. Gli scontri e le battaglie dialettiche che intraprendevo con questo professore sono stati per me un punto di partenza perché, com’è ovvio, lui ne sapeva molto più di me e poteva mettermi all’angolo come e quando voleva. D’altra parte, però, non ci stavo a essere messo all’angolo e quindi studiavo molto per poter controbattere. Devo dire che lui è stato un uomo molto intelligente da questo punto di vista perché stimolava questa nostra amichevole conflittualità in cui entrambi facevamo il gioco delle parti, io con la mia maschera da marxista e lui che mi punzecchiava dicendomi che non solo non avevo letto Marx ma che non l’avevo neanche capito. Allora via, correvo a leggere Marx e a rinfacciargli la volta dopo che l’avevo letto e capito, tutto nasce così.

       Devo dire però che se prima di fare filosofia ne avevo una visione un po’ romantica, perché la consideravo un sapere a sé, una disciplina indipendente, oggi invece avrei qualche remora a pensarla così, dal momento che, secondo me, la filosofia altro non è che una cassetta degli attrezzi. Se la filosofia è storia della filosofia allora va bene, posso perdere anni e anni a ragionare su quello scolio di quella traduzione di Gregorio di Nissa. Ma se invece ho una velleità, una seppur minima velleità non dico di fare il filosofo, ma almeno di avere un’idea, allora ciò che oggi scoprono la fisica, la neurochirurgia, le neuroscienze o il fatto che Elon Musk ieri abbia mandato in orbita la sua navicella spaziale sono tutte cose che posso anche non sapere, ma che devo almeno saper guardare. Se dunque prendo un libro di filosofia, lo leggo e provo a capirci qualcosa, bene, ma poi che cosa ci faccio? Secondo me ha più senso provare a utilizzare quello che ho capito di un libro di filosofia per tentare di comprendere quello che sta fuori dalla mia finestra, perché quello che sta fuori dalla mia finestra mi interessa, e mi interessa perché mi fa paura, mi piace e mi affascina per il semplice fatto che non lo capisco. Credo che la nostra epoca offra una serie di spunti e di occasioni per essere molto più filosofi di quanto si potesse essere nel Novecento, perché nel Novecento c’erano le ideologie e adesso invece no. Le migliori cose che ho letto di filosofia negli ultimi anni provengono, infatti, dalla sua applicazione alla medicina, alla storia della medicina o alla chirurgia e alle neuroscienze, a tutto quel sapere che fino ad oggi le era considerato estraneo. Delle cose meravigliose sono venute dal ritorno di fiamma che c’è stato, ad esempio, tra filosofia e biologia – infatti nei primi anni del Novecento la biologia tedesca era un motivo di interesse clamoroso per filosofi come Deleuze e Heidegger, pensate al barone Jacob Von Uexküll.

Che significa, insomma, fare filosofia oggi? Che significa oggi essere filosofo? Secondo me non si può prescindere dal tempo in cui si vive. È un po’ come l’idea della biografia di cui discutevamo prima: come puoi pensare di riassumere e di capire il pensiero di Kojève se non capisci il contesto entro il quale è nato ed è stato pensato? Come fai oggi a pensare di fare filosofia se non leggi i giornali o se non sai cosa accade nel mondo? Come Hegel ci insegna, leggere il giornale del mattino è la preghiera dell’uomo moderno, e Weil aggiunge che i giornali andrebbero letti come fossero un testo di Hegel e un testo di Hegel come fosse un giornale.

Quindi secondo lei il principale problema della filosofia oggi è la sua autoreferenzialità?

Non solo l’autoreferenzialità, ma anche la noia. C’è gente oggi che si trastulla e ha un piacere quasi erotico nell’affrontare questioni di lana caprina. Ti ripeto: fai il filologo, fai lo storico seriamente e allora ti metti al tavolino, fai l’edizione critica dei testi di Gregorio di Nissa, passi dieci anni per verificare quel che devi verificare e, per carità, è dignitosissimo, ma non pensare che siccome tu lavori in un certo modo allora tutti gli altri debbano lavorare come te. Questo è il grosso scoglio, il fatto che si creda che esista un solo modo di fare filosofia, come quelli che dicono che la filosofia non deve essere pop. Che significa? A me sembra che, più che pop o non pop, esistano cose interessanti e cose non interessanti. Il problema è che oggi tutti tendono a cavalcare una moda prendendo i Simpson, ad esempio, e appiccicandoci sopra l’etichetta “filosofia”. È una cosa stupida, mentre invece se si usasse la filosofia come strumento per parlare di una cosa e questa cosa si chiamasse “Simpson” allora sarebbe tutto un altro discorso.

In Italia la maggior parte di questi divulgatori alla moda non fanno altro che prendere una qualsiasi cosa dello scibile umano e, per ammantarla di un’aura pseudo-intellettuale, ci mettono di mezzo la filosofia. Poi, come se non bastasse, fanno questo utilizzando parole altisonanti, parlano di cose semplici utilizzando deliberatamente parole difficili, quando invece il vero filosofo è colui che, semplificandola, sa spiegare qualsiasi cosa, anche la più complessa. Specialmente ai nostri tempi noto una certa tendenza a pensare che tutto ciò che viene detto in maniera oscura sia intelligente, ma non è affatto così: «Se parli male – diceva Nanni Moretti in Palombella rossa – pensi male». Ciò che è oscuro è pericoloso, è il pensiero di destra, come sosteneva Furio Jesi.

Ha qualche rimpianto riguardo al fatto che anni fa ha abbandonato la carriera universitaria?

No, credo di esser stato fortunato ad aver avuto l’occasione di fare altre esperienze oltre quella accademica: conduzioni radiofoniche, giornalista, lavoro editoriale, consulenze le più varie… Questo percorso mi ha arricchito, è stato un modo per non rimanere incastrato nelle logiche universitarie alle quali molti giovani, purtroppo, rimangano incagliati.

La maggior parte dei miei coetanei che sono rimasti all’università sono diventati rancorosi, sono diventate persone peggiori rispetto a quelle che erano un tempo proprio a causa della rabbia accumulato negli anni. Io sono una persona che non conosce l’invidia, se incontro qualcuno che considero bravo non mi viene da pensare che possa minare la mia posizione perché è più bravo di me. Anzi, proprio per questo motivo mi viene da pensare di dovergli stare il più vicino possibile per cercare di imparare qualcosa da lui. Ho visto gente che stimo, gente veramente brava, “schiumare” all’interno di queste dinamiche e poveracci, hanno anche ragione, però effettivamente sono diventate persone peggiori. Da questo mi sono salvato avendo i piedi per terra, non pensando che esista soltanto la filosofia, i libri e quel mondo autoreferenziale che è l’università. Per quanto tu possa considerare importante il lavoro che fai, se ti si rompe il riscaldamento a casa devi chiamare l’idraulico, c’è poco da fare! Se pensi che il tuo mestiere sia più importante di quello che ti ripara la caldaia o del muratore che mette i mattoni uno sull’altro e costruisce la casa che ti ripara dal freddo significa che non hai capito niente. È un lavoro diverso, magari tu hai studiato per fare il tuo e lui non ha studiato, ma lui suda e tu non sudi: non ho mai visto qualcuno tornare sciupato da una giornata in biblioteca.

La cosa che trovo davvero ridicola è che i professori universitari pensano di avere un potere effettivo, ma che potere hanno in fin dei conti? Quello di far vincere un dottorato ad un ragazzetto anziché ad un altro? È becero. Non è il potere di un chirurgo che deve ordinare delle protesi che costano milioni di euro e non è il potere di un politico che gestisce la cosa pubblica. È un potere proprio perché non è un vero potere, né economico, né politico ed è un potere che, tra l’altro, ha perso la sua aura, perché nei confronti dei ragazzini di oggi i professori hanno perso qualsiasi forma di autorevolezza.

Intervista realizzata il 07/02/18

Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ricorda che tutti gli articoli presenti all’interno di questo sito possono essere liberamente consultabili e scaricabili. In caso di utilizzo del nostro materiale sarebbe onesto, nonché eticamente corretto, contattare gli autori e citare la fonte. Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ringrazia e augura buona lettura. Il testo completo dell’intervista sarà inserito in un volume di prossima pubblicazione.

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