Tommy Emmanuel

 In Interviste
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intervista di Pierluigi Sassetti

Ho cominciato ad amare la musica fin da quando ero nella culla. Mia madre diceva che quando mi portò a casa dall’ospedale, non riusciva a farmi dormire finché non metteva su un disco. Accatastava dischi su dischi sul giradischi e la musica mi calmava e così mi addormentavo. Quando il disco si fermava iniziavo a strillare a pieni polmoni finché non rimetteva un altro disco. Solo così mi rimettevo a dormire. Poi crescendo, quando iniziai a camminare, mia madre, dopo aver mandato mio padre a lavoro e i miei fratelli maggiori e le mie sorelle a scuola, aveva l’abitudine di fare il bucato. Accendeva la lavatrice, e nella casa iniziava a risuonare quel suono ritmico, ed io sentivo quel suono, e mia madre racconta sempre che non appena faceva partire la lavatrice sentiva i miei passi nel corridoio. Entravo nella stanza e cominciavo a muovere i miei piedi al ritmo di quella musica, e mi portavo dietro quel ritmo anche quando mamma mi metteva a letto. Ancora adesso non riesco ad addormentarmi senza muovere i piedi a un ritmo.

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Mio padre è venuto a mancare quando avevo undici anni, e ricordo che in quel periodo mi fu regalato un album di Chet Atkins. Praticamente ho vissuto dentro a quell’album per anni, e in definitiva è come se fosse diventato il mio mondo, ci sono entrato dentro completamente. Così un giorno gli scrissi una lettera, una cosa che molti ragazzini fanno, e gli scrissi che ero un suo grande fan, che conoscevo la sua musica e cose del genere. Scrissi questa lettera nel 1967 e lui, Chet Atkins, mi rispose, mi mandò una sua foto e mi scrisse che non vedeva l’ora di sentirmi suonare. Incredibile, Chet Atkins mi aveva risposto, aveva risposto ad un ragazzino di undici anni! Ma io non abitavo in America, altrimenti ci sarei già andato. Accadde poi che, quando avevo all’incirca diciotto, diciannove anni, ho ricevuto una lettera, un’altra lettera di Chet Atkins. Ne rimasi colpito, non capita tutti i giorni. Nella lettera Chet mi aveva scritto che un mio amico, a mia insaputa, mi aveva registrato durante un concerto e che aveva inviato il nastro a Chet Atkins: “Tommy, sei un chitarrista meraviglioso” mi aveva scritto Chet in quella lettera e mi invitò in America sperando di potermi incontrare al più presto per suonare con lui. Ma ancora una volta mi era impossibile prendere l’aereo e andare fino a Nashville dove lui abitava. Lo incontrai a venticinque anni, nel 1980, grazie a mia moglie che mi comprò un biglietto d’aereo per Nashville e così ho realizzato un mio sogno.

E poi che cosa è successo?

Salii sull’aereo alla cieca, come si dice, senza un programma, senza sapere dove mi stavo cacciando, se avrei veramente incontrato Chet Atkins. Appena arrivato a Nashville telefonai alla sua segretaria e gli chiesi se Chet fosse in città. Lei mi rispose di sì, ma che in quel momento stava giocando a golf. Riuscii a incontrarlo solo tre giorni più tardi, quando lo chiamai nuovamente al telefono e gli dissi: “Ciao, Chet, sono Tommy Emmanuel dall’Australia”. E lui rispose: “Ciao Tommy, dove sei?” Gli dissi che ero in una cabina telefonica proprio in fondo alla strada di casa sua e così mi ha invitato ad andare da lui. Quando sono arrivato era già per le scale con la sua chitarra in mano. Mi mise un braccio sulla spalla e poi mi prese sottobraccio conducendomi in una stanza dove abbiamo suonato e suonato. Ma non è finita qui, perché poi ad un certo punto suonò il campanello di casa e Chet mi disse: “Voglio presentarti qualcuno”. Così posò la chitarra, mi lasciò lì solo ad attendere mentre lui andava ad aprire alla porta, e dopo un po’ lo vedo rientrare assieme a nientemeno che Lenny Breau.

Penso sia stato per te una cosa meravigliosa, ma poteva anche rivelarsi un incubo.

È vero, perché ti trovi in mezzo a musicisti meravigliosi e non vuoi fare la figura dell’ultimo arrivato, ma non fu così. Mi hanno lasciato suonare mettendomi a mio agio. Non erano musicisti che avevano bisogno di farti capire che erano i migliori, perché erano i migliori, non avevano niente da dimostrarti. Abbiamo continuato a suonare assieme per tre ore, fin quando Chet è dovuto uscire ed io e Lenny abbiamo continuato a suonare. In quel momento capii che Lenny Breau aveva una capacità di espressione veramente profonda, era una cosa quasi soprannaturale, apparteneva ad un altro mondo. Uno come lui non l’ho più risentito, veramente, ed è stato un peccato che se ne sia andato così presto.

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Les Paul è stato un uomo meraviglioso, un altro padre per me, al punto che quanto mi trovavo a New York e lui era sempre vivo non perdevo occasione per andare a trovarlo. Certi musicisti, oltre a possedere una meravigliosa arte nelle mani, sono anche come persone qualcosa di unico, di affascinante, che ti colpiscono ti ammaliano.

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Sono quello che sono, sia sul palco che fuori. Quando qualcuno mi chiede qualcosa su come vivere la musica, stare sul palco, rapportarmi allo strumento, rispondo che la mia arma segreta, se così si può chiamare, è quella di essere me stesso. Sono quello che sono e niente di più.

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George Benson, che chitarrista meraviglioso che è! Per me è il jazzista più sottovalutato del pianeta. Credo che sia il più grande. Una volta mi è capitato di suonare addirittura con Joe Pass. Era il 1978.

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Comunque, non ho mai voluto classificarmi, pormi in una categoria precisa, come essere un chitarrista jazz, rock o country. Per prima cosa posso dirti che sono un chitarrista che suona e ama le melodie, un improvvisatore, uno che fa intrattenimento, e ho la chitarra per far questo, perché la mia chitarra è il mio strumento. Ma resto un intrattenitore, un musicista, ed è il solo modo, secondo me, per una persona, di rimanere fedele al suo dono e alla sua arte. Cerco sempre di mantenermi il più possibile spontaneo, ispirato dall’occasione, senza precostruzioni. Prima dei concerti non costruisco neppure una scaletta dei brani, salgo sul palco e suono. Non ho mai voluto lavorare con la scaletta, e anche questo è un modo di sentirmi libero che dà valore e vitalità alla mia arte, insomma, ne ricavo un giovamento. L’ispirazione, il momento, il pubblico, l’atmosfera, sono tutte cose che mi ispirano ogni volta a cambiare e cambiare ancora, ed è importante per me sentire queste sensazioni lasciando che influiscano sul mio modo di suonare.

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L’orecchio è la mia tecnica, mi affido a lui. Per esempio non leggo spartiti, perché ho un orecchio che funziona ed è così che lavoro la musica. La sensibilità sta tutta nell’ascolto e fin da piccolo ho lavorato affidandomi unicamente all’ascolto. E non è una questione di orecchio assoluto, perché non so se ho l’orecchio assoluto e non mi interessa. È un puro e semplice atto di cogliere la musica così come la sento e la vivo.

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Quando sto improvvisando, cerco di riprodurre quello che vorrei cantare, e questo per me è il fondamento dell’improvvisazione. Per questo il mio ascolto è, come dire, esigente. Molta gente commette l’errore di fare unicamente tecnica, ma il rischio è che diventi una cosa fine a se stessa. C’è il rischio di non lasciarsi immergere nella musica, di non lasciarsi toccare dalla musica, di non produrne una. Oppure, molti compiono l’errore di ascoltare unicamente chitarristi, senza curarsi di tutto il mondo della musica che resta e che è immenso. Non mi sono mai messo a sedere per fare ripetutamente scale e modi, non ascolto altri chitarristi, ma faccio la cosa opposta.

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Ho imparato di più ascoltando musica per pianoforte e altri strumenti. Amo certi cantanti e cantautori, le loro canzoni, le buone melodie, ed è questo che mi interessa. Senza una melodia non hai niente. Per questo anche quando suono la melodia, mi piace farlo in modo chiaro, netto, inchiodarla nel brano quasi fosse l’unico punto di riferimento, perché è ciò che dà senso al brano, è ciò che gli dà significato, è il discorso del brano. Questo penso di averlo imparato da Chet.

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Tra le grandi influenze della mia vita ci sono certamente i Beatles e cantanti country come Hank Williams, Merle Haggard, Buck Owens Ma soprattutto ho sempre ascoltato Django Reinhardt, un genio, in tutti i sensi.

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Amo la musica di Chet Atkins, ho sempre considerato il suo modo di suonare migliore di chiunque altro, migliore di ogni altro chitarrista che abbia mai ascoltato. Le sue idee e le modalità di concepire la musica hanno letteralmente fatto esplodere la mia mente, le mie idee musicali.

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Come ogni altro chitarrista, ho cercato di lavorare su di me in modo da ottenere il miglior suono possibile, ma non ho mai pensato a Tommy Emmanuel come a un “virtuoso”. Il virtuoso è un genio, io ho ancora molto da lavorare, ho un sacco di aree ancora da esplorare e fare mie, per questo sono costantemente alla ricerca di modi nuovi e migliori per suonare.

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Gli allievi dovrebbero essere letti singolarmente, uno ad uno, piuttosto che dare loro l’opportunità di prendere la strada che prendono tutti. L’insegnante dovrebbe capire l’importanza di questo punto, invece di salire in cattedra e dire: “Fate questo perché qui comando io!”. È una cosa che non funziona. Ho sempre cercato di leggere e capire il potenziale degli allievi che mi sono trovato di fronte e ho sempre cercato di offrire loro qualcosa che gli permettesse per prima cosa di incrementare il loro talento e di rispettare la loro musicalità di partenza, quella che mi hanno mostrato fin dal nostro primo incontro. Non c’è un ragazzo uguale all’altro, per questo cerco di leggerli singolarmente.

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Visto che siamo entrati nel discorso dell’insegnamento, io sono un autodidatta, ed ho preso qualcosa da tutti i chitarristi e musicisti che ho amato e che ho incontrato. Ho preso in prestito, ho rubato, ho tratto ispirazione da tutti, e ho fatto mio quello che mi è piaciuto scoprire negli altri modi di suonare e di concepire la musica. Quando ero bambino, ad esempio, mio fratello maggiore era un chitarrista che aveva un orecchio incredibile, voglio dire che ascoltava qualcosa alla radio e poteva letteralmente riprodurlo all’istante. Sto parlando di bambini! Mi diceva tutti gli accordi del brano, se erano di settima o di quinta, e poi mi diceva: “Ok, il giro funziona in questo modo e mi mostrava la parte ritmica e gli accordi, e me li faceva copiare. Ecco, mio fratello è stato un buon maestro.

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La mia prima registrazione l’ho fatta nel 1960, con la mia famiglia. Ero giovane, ed è stata una registrazione su acetato per una stazione radio in Australia. Abbiamo suonato alla radio un paio di volte e niente di più. Purtroppo il disco è caduto per terra, quindi è andato perduto per sempre, e addio registrazione.

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Ho iniziato a suonare come solista solo alla fine degli anni ottanta, e per un motivo ben preciso. A quel tempo stavo suonando in diversi gruppi musicali, e ad un certo punto ho come avuto la necessità di stare un po’ da solo, per conto mio. E così ho fatto, standomene da solo, ho continuato a suonare, ma da solo. Questa cosa è andata avanti, piano piano, quasi come quando ero piccolo, e mi studiavo i pezzi nella mia camera, e così ho proseguito senza più smettere. Penso sia stata una specie di evoluzione naturale, se così possiamo chiamarla, e quando poi ho cominciato ad esibirmi da solo, il pubblico apprezzava, e a me sembrava di aver fatto veramente qualcosa di importante, e ho continuato.

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Faccio laboratori in tutto il mondo, masterclass, clinic nelle scuole di musica, e cerco di mostrare agli studenti, alle giovani generazioni, che ci sono un mucchio di cose belle da suonare la chitarra, e altrettante ci sono nella musica in generale. Però gli spiego anche il tipo di dedizione e di sacrificio che ci vuole, per estrarre dalla nostra vita, per toccare con mano tutta quella bellezza.

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Con Chet Atkins siamo stati davvero come padre e figlio. Suonare, lavorare con lui, fare quell’album con lui è stato un lavoro di puro amore. E ‘stato meraviglioso. Lui, a quel tempo aveva una salute precaria, e per questo motivo ho dovuto lavorare un sacco, perché lui non poteva essere presente. Ho registrato tutte le parti di accompagnamento in modo che Chet potesse suonarci sopra. Poi, dopo l’operazione per il tumore al cervello, Chet è dovuto rimanere a casa per rimettersi.

È stata una grande influenza su di te per tutta la vita?

Sì, certamente, fino alla fine. E ‘stato più di un semplice modo di suonare la chitarra e il suo tocco e cose del genere. E ‘stato il suo senso della melodia e le sue idee messe a disposizione per la mia maturazione. E, naturalmente, il modo in cui mi ha trattato sin dal momento in cui ci siamo incontrati. Aveva un’immensa umanità e esperienza. Non è da tutti riuscire a trattare con tale rispetto e amore un perfetto sconosciuto.

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Non ho una formula per il successo che ho avuto e non ne ho mai avuto una, ma penso che la formula per il fallimento è cercare di piacere a tutti.

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Alle volte mi è capitato che certi genitori mi chiedessero un consiglio su come avviare i propri figli alla musica. Penso che la risposta migliore da dare in questi casi sia quella di augurare di avere una buona musica da suonare e per suonare. C’è bisogno, secondo me, di evitare musica che fa perdere tempo ed energie, canzoni che non significano nulla. Buone melodie, strutture, buona sensibilità.

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Penso che tutto il musicista che vuole avere una vita di successo nella musica deve avere buone canzoni e un sacco di cuore nella musica. Il pubblico vuole qualcosa che è reale, e vogliono sentirlo. Così deve essere in grado di connettersi con il pubblico attraverso la vostra musica e il vostro regalo.

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Faccio circa 300 concerti all’anno, se non di più, e questa vita ti lascia veramente poco tempo per altre cose, cose che vorresti fare, portare avanti. Non ho più molto tempo per la vita familiare, addirittura non ho avuto una casa per circa tre anni. Ho sempre soggiornato in albergo, praticamente abito negli alberghi di tutto il mondo.

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Intervista realizzata il 2 aprile 2012 presso il Palazzo dei Congressi di Pisa.

Traduzione dall’inglese a cura di Giuseppina Pagliafora

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