Tre domande a Fabio Mariani

 In Estetica, Interviste
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di Pierluigi Sassetti

 

 

Ho sempre avuto una sorta di “debito” nei confronti di Fabio Mariani poichè agli inizi del mio percorso musicale, quando da adolescente iniziai a volerne sapere di più sulla natura della musica e del mio strumento, mi sono imbattuto nel suo Trattato di chitarra jazz. Un libro che divenne in poco tempo un ostacolo da dover superare a tutti i costi, la cui lettura mi offriva più grattacapi che gioie e scoperte interessanti. Ho passato diversi anni su quelle pagine, e per questo l’ho anche maledetto; ma se ho iniziato a conoscere qualcosa in più sulla musica, lo devo a quella lettura che mi ha aperto un mondo. Per questo motivo poter intervistare Fabio Mariani e porgli gli stessi interrogativi che ora come un tempo mi porto dietro nella mia pratica di insegnamento, e che al tempo stesso mi vengono rivolte dai miei allievi di oggi, è un autentico privilegio.

La scuola?

Il mondo è cambiato ed è cambiato anche per la musica. Quando sono andato in America le grandi università della musica erano strapiene di musicisti. Ma quanti di questi hanno fatto veramente i musicisti? Quanti, uscendo da quelle università, sono riusciti a fare il mestiere di musicista? Tenevo un Masterclass all’M.I., avevo ventotto anni e lì c’erano studenti italiani che non ho mai più rivisto. È frequentare la scuola ciò che fa la differenza? Non credo.

Suonare?

Quando ero giovane facevo tra gli ottanta e i novanta concerti all’anno, e si aveva la possibilità di andare in televisione. Oggi questi spazi non ci sono più. A Roma, ad esempio, c’erano venti, trenta posti in cui era possibile suonare, mentre adesso ce ne saranno rimasti cinque. Certamente oggi la possibilità di crescere suonando è molto più bassa rispetto ad un tempo. Oggi è complicato sia per un ragazzo che è agli inizi, sia come uno come me che da tempo fa questo mestiere.

Imparare?

Tu puoi copiare quanto vuoi lo stile di un altro chitarrista, ma le tue mani, le tue gambe, il tuo corpo sono diversi e per questo il suono non potrà mai essere identico. Ciascuno di noi rappresenta una unicità. Per molti questa cosa può essere un dramma perché forse volevano partecipare a qualche Talent Show. Ma come può essere un dramma essere unici? Siamo uno diverso dall’altro, ed è così, è una verità. Quando insegno, mi avvicino ai miei allievi cercando di non dargli un insegnamento che sia valido per tutti. Certamente sul piano teorico può essere uguale per tutti, ma poi sul piano pratico bisogna andare a vedere le differenze.

Nel jazz tutta la musica si trasmette al di là dei libri. La musica si trasmette dal maestro all’allievo, suonando insieme, vibrando assieme. Solo così si trasmette. Se si ha l’ambizione di diventare dei musicisti l’unica cosa da fare è quella di provare a suonare con i grandi musicisti. Se non suoni con quelli ti viene a mancare qualcosa che reputo vitale. Io l’ho fatto e per me è stato fondamentale. Stare sul palco con questi musicisti ti dà delle conoscenze e delle spinte che vanno oltre la teoria, perché la musica è un linguaggio ritmico armonico e melodico, e l’insieme di questi tre fattori è qualcosa che si capisce molto più facilmente vivendolo che non ascoltandolo. Altrimenti, tutti quelli che ascoltano Wes Montgomery dovrebbero diventare come lui! Se bastasse solo ascoltare musica per imparare a suonare saremmo tutti bravi … anche se saper ascoltare è un traguardo difficile da raggiungere. Siamo ancora più in là, non è così semplice. Per sviluppare un linguaggio ci vogliono disciplina ed anche fortuna perché dovremmo incontrare quei musicisti che sanno trasmetterti quelle cose adeguate che fanno maturare il tuo stile.

 

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intervista realizzata il 1 novembre 2017

 

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