Evan Parker
Di Andrea Carnesecchi e Francesco Pratelli
Cosa ama del suo strumento?
Amo la sua storia, la sua tradizione, specialmente quella del sax soprano dell’epoca di Coltrane. John Coltrane è stato probabilmente il primo sassofonista che ha fatto scattare in me l’interesse per questo strumento, che ha fatto sì che volessi suonarlo e che, in un certo senso, volessi suonarlo come lo suonava lui. È stata un’influenza molto importante per me. Quando poi ho cominciato a prendere maggior confidenza con lo strumento, ho conosciuto Steve Lacy e successivamente ho anche suonato assieme a lui. Lacy è stato veramente un grande musicista, e diventammo amici con una certa naturalezza. È stato lui ad avvicinare Coltrane al sax soprano, prima di quest’ultimo c’è stato una sorta di periodo di incubazione e di riflessione sull’utilizzo di questo strumento: mi pare che lo suonasse Johnny Hodges e sicuramente Sidney Bechet, che possiamo considerare una sorta di padre del sax soprano. Ma è solo con Lacy e Coltrane che è emersa davvero questa sonorità.
Quindi il suo amore per questo tipo di musica è nato con Coltrane?
In realtà no, ho incominciato ad ascoltare jazz quando avevo undici o dodici anni. Mi ricordo che nella mia scuola c’era un ragazzo che mi faceva da guida, che veniva da me e mi diceva: «Devi assolutamente ascoltare questo!». Mi ricordo che una volta venne da me e mi disse: «È morto Charlie Parker!», e io gli risposi: «Chi è Charlie Parker?», e lui «Non conosci Charlie Parker? Devi ascoltarlo!!!». Infatti il primo album jazz che comprai fu Bird & Diz, un disco fantastico, l’ho ascoltato fino a consumarlo! È così che ho scoperto il jazz e sono entrato in questo mondo. Un po’ di tempo fa ho ascoltato un programma radiofonico della WKCR in cui c’era Phil Schaap, grande esperto di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, che parlava proprio della loro reunion e devo ammettere che non sapevo che si fossero separati e avessero preso strade diverse. La loro reunion risale al tempo in cui la stella di Charlie Parker stava salendo vertiginosamente mentre quella di Dizzy al contrario cadeva. Charlie Parker stava sfruttando il successo avuto con l’album With Strings mentre per Dizzy era addirittura difficile trovare da suonare con la sua Big band. Insomma, per farla breve, non avevo realizzato che questo album fosse l’emblema di un incontro così significativo.
Cos’è per lei l’improvvisazione?
Improvvisare per me significa portare ciò che conosco all’interno di una situazione che non conosco per provare a scoprire qualcosa di nuovo! Si tratta di utilizzare cose che fanno parte di me per scoprire qualcosa che ancora non mi appartiene perché ne ignoro l’esistenza. Per un musicista l’improvvisazione è importantissima perché gli permette di gettarsi in una situazione nuova. C’è una libertà di scoprire che è sempre lì a portata di mano, ed è un’opportunità da cogliere, indubbiamente, ma solo se parti dal sapere che già hai, che sei riuscito a costruirti.
Lei ha imparato a suonare jazz in una scuola o direttamente con i musicisti?
Sono stato a lezione da un maestro di sassofono e da lì ho incominciato a suonare, tutto qui.
Pensa che ci sia differenza fra imparare a suonare in una scuola o direttamente con i musicisti?
I tempi sono molto cambiati, ora le cose sono diverse rispetto ad un tempo. Oggi l’insegnamento sicuramente è migliore, i materiali a disposizione sono migliori. Ma capisco perfettamente il rischio che si corre nel codificare il linguaggio jazz perché possa essere insegnato, il rischio è quello che tutti gli aspiranti musicisti utilizzino un unico materiale. In una realtà in cui gli studenti usano tutti lo stesso materiale e gli insegnanti hanno tutti il medesimo modo di insegnare, si crea un livello di conformità preoccupante. Per questo motivo è veramente difficile immaginare un musicista come Eric Dolphy che esce da una scuola jazz, come prodotto di una scuola. Difficilmente un musicista come Charles Mingus può nascere all’interno di una scuola, lui come molti altri grandi. Sono artisti che non sono passati attraverso questo genere di cose: erano certamente dei musicisti istruiti, ma non dal punto di vista dell’educazione jazz, quella che oggi va tanto di moda. Come vi ho detto, però, le cose oggi sono notevolmente cambiate, ma sono comunque sicuro che molti giovani musicisti sono ben consapevoli dei limiti derivanti dai loro studi scolastici. A Londra li vedo lavorare, e posso dirvi che ci sono dei musicisti veramente fantastici che vengono fuori da luoghi come la Royal Accademy, Trinity e altre accademie. Ci sono perlomeno tre scuole a Londra dove puoi studiare jazz ad alto livello.
Un’ultima domanda: come è arrivato ad avere il suo stile particolare?
Il punto è sempre lo stesso, l’improvvisazione. È qualcosa che nasce, che emerge, è come un feedback, una vibrazione tra quello che sai e quello che non sai. Solo così nasce lo stile. Mettere in gioco quello che conosci in una situazione sconosciuta per vedere, capire e soprattutto ascoltare quello che accade. È una situazione che ti permette di entrare in contatto con ciò che suoni, e così iniziare a sperimentare e a sperimentarti. Ti dici: «Oh, questo funziona bene!», oppure: «No, questo non funziona affatto!».
Grazie davvero Mr. Parker!
E’ stato un piacere!
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Intervista realizzata al Musicafoscari il 28 Ottobre 2017
traduzione di Francesco Greppi
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