Barnaba Maj

 In Filo-sofia
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DI ANDREA CARNESECCHI E FRANCESCO PRATELLI

Perdoni il brusco cambio d’argomento, ma avrei una curiosità: mi chiedevo perché la sua casa sia così spoglia di libri, non li tiene qui?

No, non ce li ho qua dentro, perché avendo avuto vicende personali complicate – traslochi, conflitti con la famiglia, etc. – ho maneggiato un sacco di libri nelle biblioteche, ne ho comprati altrettanti e, in alcuni casi, ho anche dovuto venderne a centinaia per salvarmi da vari naufragi finanziari. Ma sono in ottima compagnia, da questo punto di vista potrei citare nomi grandissimi, ben più grandi del mio, che hanno conosciuto debiti. Devo dire che adesso mi piacerebbe soffrirne un tantino meno, ma in realtà del denaro non mi sono mai preoccupato, un tratto questo inesorabilmente aristocratico. Una delle ragioni per cui non andavo d’accordo con i colleghi in università è che, non dico tutti, ma la stragrande maggioranza erano dei piccolo borghesi impiegatizzi. Per questo gli vanno bene le etichette di cui parlavamo prima, gli vanno benissimo perché i professori sono degli impiegati. Gli studenti, invece, in molti casi sarebbero davvero interessanti ma il problema è che dopo un po’ si lasciano fagocitare, non sono assolutamente capaci di protestare e questo è un tratto che viene da lontano perché siamo in un paese che mira tutt’ora a creare sudditi, non cittadini. Come diceva nel suo testamento il grande storico tedesco e premio Nobel per la letteratura Theodor Mommsen: «Odio il mio paese perché nel mio paese non ho mai potuto fare quello che avrei voluto fare nella mia vita, cioè essere un vero cytoien». Quando ho citato questo passo alla casa editrice Carrocci non ci credevano che lo avesse scritto davvero e sono andati a controllare. Ha ragione, la Germania è il paese dove la tradizione cytoien non c’è, tant’è vero che la lingua tedesca questa parola non ce l’ha. La parola tedesca per “cittadino” è la stessa di “borghese”, bürger, abitante del borgo.

È anche per questo rapporto difficile con i colleghi che ha scelto di abbandonare l’insegnamento prima del tempo?

Beh insomma, ci sono stato comunque un bel po’ di anni in università, ma ad un certo punto non ne potevo veramente più, anche perché forse a lungo andare ho risentito della morte di Melandri che per me, anche se a fatica, era comunque un interlocutore fondamentale. La fatica dipendeva dal fatto che beveva come una spugna mentre io ero astemio.

Ma veramente Melandri era un personaggio così “pittoresco”?

Beveva come una spugna, aveva sviluppato un fisico taurino e quindi reggeva l’alcol fino alla sera, era capace di bere litri e litri. Si disintossicava d’estate, ma era comunque abbastanza alcolizzato. Gli feci fare una volta una conferenza su Ignacio Matte Blanco, il cui titolo era L’inconscio e la dialettica e Melandri, prima di fare la conferenza, quando lo andai a prendere a Bologna, era già mezzo ubriaco e trangugiò un intero bicchiere di cognac prima di cominciare a parlare.

Ma poi riuscì a parlare?

Fu lucidissimo. Cominciava a dare qualche segno di cedimento solo verso sera, quando l’alcol si faceva sentire. È morto che aveva settant’anni, di ischemia, è avvenuto tutto abbastanza all’improvviso.

Lei è il primo filosofo che incontriamo a parlarci della sua passione per il calcio, che cosa le piace di questo sport?

Sai, i filosofi non ne capiscono un gran che di sport. Anche il primo capitolo del romanzo che sto scrivendo tratta di un grande personaggio della storia del calcio, Juan Alberto Schiaffino. Come vi ho detto sono un tifoso del Milan, e se tifo Milan è proprio grazie a Schiaffino. È una cosa incredibile che anche gente che ha diversi anni più di me si ricordi di Rivera e non di questo giocatore veramente geniale. I brasiliani non capirono niente della pericolosità di Schiaffino, che per altro assomigliava a Wittgenstein. Avete presente la canzone di Paolo Conte Sudamerica, in cui dice: «La genialità di uno Schiaffino»? A Milano lo chiamavano “terzo occhio”, giocava regista, era un numero dieci canonico, e tutti erano impressionati da lui perché sembrava giocare come se vedesse il gioco dall’alto. Cosa questa che non capiva il professore di Filosofia della Scienza del dipartimento di Bologna, il “plagiaro” di cui vi parlavo poco fa, cioè che se il calcio lo guardi alla televisione non vedi niente. Il calcio è difficilissimo da seguire stando all’altezza del campo! Quando vai al San Siro, a Milano, sei in verticale e vedi benissimo la scacchiera; la gente invece non capisce che il giocatore, stando sul terreno di gioco e quindi al “piano terra”, vede molto meno di chi sta sugli spalti. Quindi solo i geni riescono a vedere con lucidità il gioco dal campo, geni come lo sono stati Schiaffino, Rivera, Pelé e Maradona. Comunque il calcio non è l’unico sport che mi piace, certamente sono cresciuto un po’ calciofilo, ma mi piacciono anche altri sport. Anche se attorno vi ruotano un sacco di interessi, troppi interessi, il calcio resta comunque un gioco stupendo, bellissimo. Pensate che ancora oggi mi ricordo quando da bambino vidi giocare Pelé. Nel ’58 il Brasile convoca in nazionale questo giovinetto spacciandolo per uno “bravino” e a quel tempo non era come oggi che di un giocatore, anche se esordiente, si può conoscere tutto. L’allenatore schierò questo ragazzetto nella finale, e ad un certo punto della partita, un giocatore del Brasile effettua un cross nella direzione di Pelé. Lui al volo fa un sombrero sui difensori svedesi riuscendo a smarcarsi, li aggira, poi tira in porta e fulmina letteralmente il portiere. Uno spettacolo indimenticabile, e tutto questo a diciassette anni durante la finale dei mondiali. Ma non è l’unico ricordo legato al calcio che mi porto dentro, voglio raccontarvi anche un altro episodio che risale agli anni in cui il Milan era super spettacolare, quando giocava il famoso trio svedese per il quale la gente saliva anche sugli alberi pur di vederlo in azione, e una volta, a Torino, batterono la Juventus sette a uno, con Gunnar Nordahl, detto “Il bisonte”, che trascinava via i difensori juventini che gli si attaccavano alla maglia. L’episodio è il seguente: una volta, a Ferrara, Schiaffino imposta l’azione da centro campo, passa a Liedholm sulla destra e corrono entrambi in avanti. Liedholm gli rimette il cross e Schiaffino si accorge che è leggermente arretrato, allora rallenta un istante e di tacco sinistro si passa la palla sulla testa e sempre al volo fulmina il portiere con un tiro tagliato colpendo il pallone di esterno destro. La palla va da una parte, il portiere dall’altra e lo stadio di Ferrara viene letteralmente giù. A proposito di stadi, lo sapete che il campo più terribile d’Italia è quello di Firenze?

Sì? Il Franchi?

Sì, i fiorentini sono terrificanti, di un’antisportività unica, non ho mai sentito un applauso da parte loro per quelli della squadra avversaria. Proprio a Firenze mi sono prodotto in uno dei gesti più coraggiosi della mia vita: ero allo stadio con un amico ed eravamo finiti in tribuna in mezzo ai tifosi della fiorentina, nel Milan giocava Donadoni e nella Fiorentina giocava un brasiliano piccolo e brutto di nome Dunga. Donadoni gli fa una veronica e questo casca per terra, si rialza, lo insegue e, alle mie spalle, un fiorentino grida: «Oh segalo!». Dunga, neanche lo avesse sentito, lo raggiunge e lo “sega” entrandogli dritto sulle gambe. Così mi giro e gli dico: «”Brutto stronzo”, lo sai chi è quello lì? È Roberto Donadoni, un patrimonio del calcio nazionale. Impara a guardare la partita!». Con la coda dell’occhio vedo il mio amico che coraggiosamente si defila. Rimasero tutti zitti, l’aspetto argomentativo del mio discorso doveva averli colpiti.

Intervista realizzata il 06/02/18

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