Franco Cerri

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Una lezione, io, a lei, ma non mi permetterei mai!
Intervista a Franco Cerri.
di Pierluigi Sassetti

Franco Cerri

Franco Cerri

“… meravigliose eccezioni …”.
(Oscar Wilde)

“O esprimersi e morire o restare inespressi e immortali”.
(Pier Paolo Pasolini – Empirismo Eretico)

 

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«Vedi, io sono il re della timidezza. Può sembrare strano ma è così nonostante il lavoro che faccio. Non ho mai pensato ad essere un grande chitarrista e a chi mi dice di esserlo, rispondo alle volte che sono il più bravo chitarrista della casa dove abito. Non è questo aspetto che mi piace del mio lavoro, aspetto che considero pericoloso, limitativo, e niente di più. Sono un chitarrista consapevole di fare il chitarrista, e questa consapevolezza di essere ciò che sono me la porto dietro da anni, nata nel momento in cui ti dici “l’hai voluta la bicicletta, adesso pedala”, nel senso che: “hai voluto fare questo mestiere, adesso ti ci devi guadagnare da vivere, ci devi tirare avanti una famiglia, crescere dei figli, toglierti delle soddisfazioni magari. Un lavoro come un altro alla fine».

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“… racconto a Cerri un aneddoto che mi colpì particolarmente in occasione di un suo concerto assieme a Jacopo Martini. Jacopo e gli altri musicisti sudarono le sette camice per riportarlo sul palco per un bis. Una riusciti a convincere Cerri a rientrare, essendo quella una serata dedicata a Django Reinhardt, proposero un brano di Django. Ad un certo punto, prima di iniziare, Cerri si avvicina a Jacopo e quasi sottovoce, un po’ preoccupato gli sussurra: “Mi raccomando … piano”. Alle volte, durante un concerto, nonostante tutto il daffare, non succede un bel niente, l’artista non esce allo coperto, si nasconde dietro se stesso e fa di tutto per farlo, quasi come se questa fosse la sua unica preoccupazione. Non so quanti chitarristi avrebbero detto una cosa del genere, chiarisco a Cerri, specialmente sul palco, lasciandosi sentire da tutti nonostante il tono basso della voce. Cerri ride, compiaciuto, annuisce divertito. Un puro narcisista non può permettersi certi lussi, narcisismo che ovviamente fa parte di questo tipo di mestiere e che impone di mostrarsi come pieni, totali, sempre funzionanti al di sopra di tutti. Lei invece è una persona che mette in mostra i suoi limiti e per questo mostra quell’umanità che è estremamente rara. E forse, alla fine è ciò che piace anche più del suono, perché il suono fa sempre riferimento al musicista. «L’errore» chiarisce Cerri con un filo di voce «fa parte del gioco, è una pennellata data diversamente, forse con più o meno intenzionalità, forse fuori contesto, ma è pur sempre un atto anche l’errore. Certo, mostrarsi per quello che siamo e diventarne consapevoli, accettare i propri limiti. Adesso, ad esempio, devo fare un concerto e l’organizzazione mi ha chiesto di portare dei dischi, i miei dischi da vendere, una cosa che non ho mai voluto fare. Da una parte mi vergogno, dall’altra ho passato l’intera mia vita senza mai vendere un disco. Mi sembra una cosa da bullo andare li a vendere dischi. Non fa parte di me. Oppure, nonostante mi sia occupato di musica e della sua didattica, sono uno che è sempre stato sempre legato al plettro, non sono mai riuscito a metterlo da parte e suonare la chitarra come si fa con la classica, con le dita. Non sono capace di arpeggiare, anche se è una cosa che può venire facile perché la fanno tutti».

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«Dico sempre riferendomi a qualche bravo musicista che non osa più di tanto pur avendone le capacità: “Appena avrà fatto i soldi, si metterà a fare jazz”. Io ho sempre fatto jazz».

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«E una sera c’era Lou Bennett all’organo, stupendo, Jim, poi un batterista che non ricordo che fosse, ed io. Poi c’era Jerry Mulligan e poi qualche altro italiano, ma non ricordo. Allora, era la prima volta che suonavo davanti a Jim, e mi sono ritrovato in una situazione del tutto identica a quando suonai per la prima volta di fronte a Kramer. E allora si è presi da qualcosa, come dire “Vi voglio far vedere che io faccio tante note”, cosa che non sono capace di fare, per mancanza di esercizio e cose del genere. Quindi sono partito e ho suonato la mia serie di note. Poi è toccato a lui, a Jim, e faceva “deng deng”, piano, lentamente, poi improvvisamente ha infilato sei o sette chorus di blues a “velocità Mennea” e poi ha ripreso a fare “deng deng”, lentamente, come per dire “Guarda, che se voglio … so essere veloce anche io”».

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Lei mi ha detto poco fa che non ha mai fatto esercizio? Chi tra i musicisti di professione oserebbe dire tanto su di se? Cerri un po’ compiaciuto un po’ in disaccordo da la sua risposta: «Penso di aver sbagliato a non aver mai studiato, a non aver mai fatto una scala, una vergogna». Istintivamente mi viene da chiarirgli che se il risultato è stato questo, meglio così forse. «No» controbatte deciso Cerri, «perché per fare esercizio bisogna sapere cosa fare, altrimenti uno fa semplicemente la scala, di do, di re, ma poi …». Questo lo diceva anche Joe Pass, ma nessuno gli ha mai creduto. Cerri si illumina in volto ed anche il tono della voce si fa disteso, leggero: «Che cosa è stato Joe? Non era il mio jazzista preferito, ma era una cosa indescrivibile. Le sue pronunce, quando faceva le quartine “ta ta ta ta”, non mi entravano nell’orecchio, ma non importa, è un mio punto di vista. Ma conosci i suoi dischi, quelli che ha fatto con Ella Fitzgerald? Ecco, ascoltando quei dischi, dovrei alzarmi in piedi. E’ il Joe Pass meno conosciuto, ma così si suona la chitarra, così si fa, quello è jazz!».

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Vietata la riproduzione, totale o parziale del presente testo senza autorizzazione. Per qualsiasi autorizzazione rivolgersi al Centro Sperimentale Pedagogico.

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