Mike Stern

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Intervista a Mike Stern

di Pierluigi Sassetti

1. Taccuini segreti scribacchiati, e incredibili pagine dattiloscritte, per puro piacere personale.

  1. Sottomesso a qualsiasi cosa, aperto, in ascolto.
  2. Cerca di non ubriacarti mai fuori di casa.
  3. Sii innamorato della tua vita.
  4. Qualcosa di quello che senti troverà la sua forma.
  5. Sii il folle santo muto della mente.
  6. Soffia forte quanto vuoi.
  7. Scrivi quello che vuoi senza fondo dal fondo della mente.
  8. Le inesprimibili visioni dell’individuo.
  9. Per la poesia solo il tempo che ci vuole.
  10. Tic visionari che vibrano nel petto.
  11. Fantastica in trance sognando l’oggetto che hai di fronte.
  12. Rimuovi le inibizioni letterarie, grammaticali e sintattiche.
  13. Come Proust sii un vecchio tempomane.
  14. Racconta la vera storia del mondo attraverso il monologo interiore.
  15. Il gioiello centrale d’interesse è l’occhio dentro l’occhio.
  16. Scrivi per te stesso nel ricordo e nello stupore.
  17. Lavora dal succoso occhio centrale verso l’esterno, nuotando nel mare del linguaggio.
  18. Accetta per sempre la perdita.
  19. Credi nel sacro profilo della vita.
  20. Lotta per disegnare il flusso che già esiste intatto nella mente.
  21. Non fermarti per pensare alle parole ma per meglio mettere a fuoco il disegno complessivo.
  22. Registra ogni giorno che passa la data celebrata nel tuo mattino.
  23. Non aver paura o vergogna della dignità della tua esperienza, lingua e conoscenza.
  24. Scrivi perché il mondo possa leggere e vedere le immagini precise che ne hai.
  25. Filmlibro è il film in parole, la forma visiva americana.
  26. In lode del Personaggio nella Deprimente Solitudine disumana.
  27. Componi in modo scatenato, indisciplinato, puro, procedendo dal basso, più è folle meglio è.
  28. Tu sei sempre un Genio.
  29. Scrittore-Regista dei film Terrestri Sponsorizzati e Finanziati in Paradiso”.

(Jack Kerouac – Scrivere Bop)

 

«Penso che sia un errore smettere di studiare, di frequentare maestri, un grosso errore. Per quanto mi riguarda, lo studio del vocabolario jazz impone la cosiddetta familiarità, l’esser vicini, dentro a ciò che si suona, altrimenti tutto diventa impersonale. Il mio problema iniziale era la frustrazione. Oggi è una cosa che ho superato mediante un’applicazione continua, estenuante. Ma ho continuato a studiare perché dopo gli esercizi sono emerse le idee, idee che ho espresso con questo linguaggio. Cose che emergono spontaneamente che mi hanno dato una sensazione piacevole nel viverle. Le idee sono infinite, e la produzione di idee per me deve essere un atteggiamento, uno stile. Studiare non basta e non serve se non arrivi alla produzione di idee. Per questo motivo mi dico che più conosco meno conosco. Più vado avanti e più sento di voler sapere».

* * *

«… quando c’era da suonare diventavo sempre nervoso … quando ho dato il mio primo concerto jazz ero in un posto piccolissimo, a Boston e avevo appena fatto alcuni concerti rock, alcuni concerti blues e cose del genere, ma niente jazz. Quello era il mio primo concerto jazz, ed ero davvero nervoso … la mano mi tremava e non riuscivo per niente a rilassare le mani … non riuscivo a suonare, suonavo di … merda … ed anche se c’erano solo tre, quattro persone tra il pubblico, anche se non c’era nessuno, continuavo ad essere davvero molto nervoso. Alla fine l’ho semplicemente fatto e ho suonato di merda, non ho suonato per niente bene, e quello è stato il mio primo concerto … ma l’ho fatto. Dopo qualche giorno il secondo concerto, e anche quello è andato altrettanto male. Mi ricordo che mi sentivo depresso, e così e mi sono detto: “beh, adesso non ho niente da perdere, posso solo continuare a provare e tenere duro”; devo dire che ho anche avuto dei buoni insegnanti che mi hanno detto di continuare a provare e che gradualmente sarei stato meno teso: più lo fai … più funziona. Sono stato davvero fortunato per questo aiuto; diversamente non so come sarebbe andata la mia vita. Continuando a suonare ho cominciato a rilassarmi, ma questo non significava che i miei problemi fossero finiti. A volte ritornavo ad essere rigido, a sentirmi nervoso e frustrato. Mi è successo anche quando suonavo con Miles Davis: tutto ad un tratto ho cominciato ad avere una paura matta in concerto. Un nervosismo così forte! Adesso posso raccontarlo con distacco, con il tempo impari a suonare, a far venir fuori il tuo cuore, come si dice, e fare il meglio che puoi e sai che questo è tutto quello che puoi fare, così ti rilassi di più. Ma non è mai una cosa scontata, già presente, È lì con te. È come superare uno scoglio che a conti fatti sei tu stesso».

* * *

«… a me piaceva, piacciono molto il bebop ed il blues. La cosa più naturale che mi venne da fare, ai tempi del Berkleey, fu di trascrivere un solo di Joe Pass. Joe Pass suonava in modo molto tradizionale, la sua musica è il nucleo essenziale del jazz: swing, frasi bebop, blues, niente improvvisazione fuori tonalità, niente varianti ritmiche, niente di complicato, niente di strano insomma. Ci misi un mese intero per trascriverlo. Decisi di farlo da solo, senza l’aiuto di nessuno, e quando lo portai in visione al mio insegnante, disse che avevo fatto una gran cosa, proprio perché lo avevo fatto da solo. Era comunque una trascrizione completamente sbagliata. Ma si è trattato di uno sbaglio utile, perché certamente leggere le trascrizioni dai libri è utile, ma è sempre meglio trascrivere i pezzi da solo. Ho iniziato così a trascrivere chitarristi per diverso tempo, diciamo per anni, partendo da Wes Montgomery e arrivando poi tutti gli altri. Successivamente sono passato alla trascrizione di altri strumenti, gli strumenti che fanno il jazz: sax, tromba, piano, e tutto questo mi ha permesso di andare oltre la chitarra, oltre la geometria della tastiera, oltre l’impostazione, immergendomi ancor di più nel jazz».

* * *

«Non deve sembrare strano, ma ancora oggi mi registro come facevo da studente e provo i miei soli sulle basi che faccio, niente di trascendentale, semplice produzione di idee che si fissano sul nastro. Le riascolti, le amplifichi, le butti via, la solita storia insomma. Suonare in modo intenzionale e non intenzionale, ispirato da un’idea che hai in testa o non ispirato da niente. Really kick your ass, come si dice, andare a cacciarsi nei guai suonando brani difficili, molto difficili, quelli tosti, Giant Steps, Moment Notice, sforzarsi di starci dentro, sfidarli, anche se poi sono gli stessi brani che ti spingono oltre i tuoi limiti. Anche quando fai le jam, e fai brani semplici, il fatto di esserti messo alla prova con percorsi complicati e tortuosi ti aiuta non poco. Ma tutto questo, tutto quanto ti ho detto finora, ti sfinisce, ti rende il pensiero così musicale al punto che la musica te la porti di notte in testa mentre tenti di dormire».

* * *

«Jaco e Miles erano veramente pazzi, ed anche io lo ero, per questo ci trovavamo alla perfezione. Sono stato molto fortunato a poter suonare con loro, come con Michael Brecher. Ognuno di loro aveva un diverso approccio alla musica e questo mi ha permesso di entrare nella musica partendo da diversi punti di vista, punti di vista che non erano i miei. Miles ad esempio non scriveva mai niente. Miles più che altro parlava con i musicisti piuttosto che portargli una partitura. Arrivava alle prove e non aveva scritto assolutamente niente, neppure una nota, e noi non sapevamo che cosa suonare, ma lui si basava sul dialogo tra di noi e tra i musicisti. Passava intere prove ad ascoltarci, e poi a parlare con ognuno di noi. Per questo la sua musica è grande, perché lui aveva questa grande capacità, una cosa rara. Per questo è sempre stato eccitante suonare con lui, perché c’era la consapevolezza di entrare dentro qualcosa di incredibilmente libero, ma soprattutto di vero. Con Jaco le cose erano diverse. Jaco era organizzato, portava i brani, ma anche con lui le idee emergevano dalle jam, jam lunghissime, interminabili, alle volte veramente estenuanti. Ore ed ore a suonare ininterrottamente. Ma oltre a tutto questo, su tutto, la cosa più affascinante che ho ancora ben presente in mente oggi, era la voce dei loro strumenti, inconfondibile, particolare, qualcosa che potresti riconoscere ovunque. Ci trovavamo in sala prove, tiravano fuori lo strumento dalla custode, e sentivi quel suono, quella voce. Li sentivi suonare vicino a te e trovavi nel loro voice, qualcosa che ti influenzava, ti arricchiva, ti metteva a tuo agio. Per quanto mi riguarda, se oggi ho un suono particolare è perché grazie a loro ho potuto permettermi di farlo emergere, avere una mia voce. Vedi, quando una persona come Miles ti ascolta mentre suoni, riesce a percepire delle cose di te che tu non solo non riesci a comprendere, non sai neppure di avere, anche se sei tu stesso a suonarle. E Miles, in questo, è stato un maestro autentico, perché mi ha diretto, mi ha condotto dalla giusta parte in cui avrei potuto tirare fuori qualcosa di me che ignoravo. Mi ha come condotto verso di me, mediante la sua musica».

Intervista con Mike Stern realizzata il 18/7/09 all’Alatri Festival Blues.

Traduzione dall’inglese a cura di Giuseppina Pagliafora

 

 

 

 

 

 

 

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