Oniropausa

 In Il Punto Interrogativo
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Idee per avere idee

di Pierluigi Sassetti

Messi qui nella vigna a far da pali”.

(Giuseppe Giusti)

Un giorno uno studente di quindici anni mi chiese: “Perché non sogno più?”. Senza mezzi termini gli risposi: “Perché ti droghi!”. Rimase interdetto e mi domandò ancora: “Come fai a sapere che mi drogo?”. La mia risposta fu: “Perché non sogni più!”. Agli adolescenti, a certi adolescenti, il fatto di sognare interessa poco o niente. Il sogno, quello a occhi chiusi, è una dimensione che si trovano a vivere con distacco e indifferenza, giusto perché è pur sempre una verità che gli cade addosso. La parola sogno, il sogno ad occhi aperti, il filmino come si dice in gergo – giusto per immaginare un irraggiungibile, una completezza illusoria, un impossibile – è molto di più abbordabile, perché meno magico, qualcosa di godibile a cui non è troppo faticoso dare un senso. Come una masturbazione, lo si può ripetere quando si vuole.

L’oniropausa, è un concetto preso a prestito dal compianto Jean Baudrillard, che lo considera come la: «fine dell’ovulazione mentale»[1]. Non si produce più sapere, idee proprie, metaforiche, e così perdiamo prematuramente la nostra soggettiva fertilità. L’oniropausa, nella mia pratica di counseling, la pongo sempre in relazione all’uso e soprattutto all’abuso di stupefacenti, quando mi trovo di fronte il classico adolescente stonato, fermo, bloccato come un computer pieno di virus, prevedibile nella sua linearità e piattezza come un’autostrada. Un dramma secondo me, una stupidaggine secondo molti. Ciò è dovuto al fatto che, a conti fatti, anche se il nostro inconscio non manda più segnali, c’è sempre un modo di godere a compensazione di ogni frustrazione e di ogni disgrazia. Perdere il sogno non è come perdere la virilità, i capelli, il cellulare: se ne può fare tranquillamente a meno. Niente più incubi, niente più interpretazioni, niente più Sigmund Freud, niente più risvegli nel cuore della notte, niente più punti interrogativi, per accoppiamenti immaginari molto più agevoli. Non è una perdita di se stessi, ma è come se il riccio o l’istrice perdessero gli aculei: i rapporti interpersonali si farebbero meno pungenti, meno spinosi, meno pericolosi. Meglio di così, no? Smettere di sognare è appunto come evitare un pericolo che è in noi stessi, nella nostra natura, il nostro Altro, come si dice in psicoanalisi.

In aggiunta c’è il discorso che l’effetto soporifero dello stupefacente viene erroneamente scambiato per una vaporosa percezione di una soggettività pensante: “Quando mi faccio, mi percepisco, mi vedo, mi sento”, chiarisce una ragazzina adolescente di quarta liceo che nella contraffazione di se stessa mediante lo stupefacente trova un modo per esistere che in uno stato normale, non riesce a possedere. Difatti, quando le pongo la domanda: “E cosa succede invece quando non sei fatta?”. Lei esita a rispondere, ma non si sottrae: “Tutto è più difficile, tutto mi sembra lontano, difficile al punto che non ci provo neppure a tirarmi fuori per affrontare tutto”. “Che rapporto hai con il sapere che apprendi ogni giorno, sia scuola che nella tua vita privata?”, chiedo a questa studentessa. La risposta si fa tremendamente confusa ma precisa: “Non lo so, forse nessuno, oppure se c’è non lo conosco e forse non mi interessa”.

Ma a certi adolescenti, il mondo dei sogni, piace, eccome. Mi capita spesso di imbattermi in ragazzi e ragazze che tengono infiniti diari di sogni, scritti puntualmente giorno per giorno. Ne parlano con libertà ai coetanei, tentano di tracciarne un senso. Anche questo studente che mi ha rivolto la domanda “Perché non sogno più?” tiene ai propri sogni, nonostante sia ormai irrimediabilmente diventato stilisticamente tossico. Ci tiene perché me lo ha chiesto, ed evidentemente, la sua ovulazione onirica gli manca. Come recuperarla, mi chiedo? Il rapporto che l’adolescente ha con le sostanze stupefacenti è sostanzialmente un gioco molto, ma molto più grande di lui. Ci si getta con innocenza, fa lo spavaldo fumandosi le canne fuori o dentro un’ideologia da tossico. Eccede nell’eccedere, ma poi il gioco gli prende la mano e quando se ne rende conto, inizia a valutare gli effetti di quello scellerato modo di godere. Forse vorrebbe scrollarsi la cosiddetta scimmia di dosso, pur godendone, ma da solo non ce la fa. E a chi chiedere aiuto? L’esperienza di uno studente chiarisce questo punto: “Al Sert non ci sono voluto andare perché ci trovo gente che non solo non mi aiuta, ma a cui non importa niente di me. Dai loro colloqui non ci ho mai tratto nulla di buono, poi mi rifilano il metadone e mi costringono ad entrare in quegli uffici per anni. La psichiatra che mi aveva in cura era più pericolosa degli spacciatori che frequentavo”. Se i sogni, così come scriveva Shakespeare, sono i “Figli d’un cervello ozioso”, il non sognare può essere contrariamente qualcosa che è indice di un cervello che si dà un gran daffare. Ci può stare come ipotesi perché, nell’epoca in cui viviamo, darsi da fare, è un imperativo. Mi piacerebbe conoscere qualcuno che ancora si intrattiene con piccole pomeridiane merende sui prati, come mi piacerebbe conoscere qualcuno che va dietro fedelmente al proprio tempo soggettivo: ci sarebbe solo da imparare. L’adolescente che ha smesso di sognare non è da Cura Ludovico, quella terapia d’urto che Stanley Kubrick ci mostra in Arancia meccanica. E’ contrariamente un soggetto che potrebbe avere esigenze specifiche rispetto a se stesso, ma che non sa come, dove, quando e da chi trovarle. La scuola, tanto per cambiare, potrebbe essere un luogo ideale, non per chiari meriti, ma solo per il semplice fatto che lo studente ci vive per anni. Come per gli ipermercati, dove è stato pensato di tutto, dal parcheggio al bar, al ristorante, per sostenere il consumatore nella sua infinita fatica di consumare, anche la scuola potrebbe ipermercatizzarsi ampliando la sua offerta. Un esempio? Basterebbe una biblioteca sempre aperta (una biblioteca nel vero senso della parola e senza obblighi di consultazione dove non trovare soltanto libri su Garibaldi, Napoleone e i classici greci), un distributore di preservativi accanto a quello delle merendine, ed anche qualcuno che ti ascolti. A tal proposito, una counselor che opera nella scuola ha di che fornirci un esempio di come il disagio venga trattato miserevolmente in ambito scolastico: “Molti ragazzi mi cercano, vorrebbero parlare con me, mi lasciano appunti con le loro urgenze, le domande che li affliggono, ma io, nonostante il ruolo che occupo nella scuola, non posso muovermi, quindi posso fare poco per loro. Non ho un ufficio, mi tocca fare i colloqui nei corridoi e durante la ricreazione perché durante le ore di lezione gli insegnanti non li lasciano uscire. I colleghi minimizzano il mio intervento, lo screditano, mi chiamano la “strizza cervelli”. Per questo motivo poi i ragazzi smettono di cercarmi. Se fossi veramente scorretta, direi loro di venire il pomeriggio nel mio studio, ed iniziare una serie di colloqui privati a pagamento. Ma questo non posso e non voglio farlo. Il mio ruolo è stato pensato dentro la scuola, non fuori, ed è lì dentro che dovrei riuscire a lavorare”. Poi conclude: “Con i ragazzi ho un certo successo, penso che questo faccia scattare una inevitabile invidia da parte di chi non ne ha”.

Bene, anzi, male! Quando tutto fallisce attorno allo studente, cosa gli resterà mai da fare se non insistere con quelle pratiche che lo hanno reso così vuoto, ma che per lo meno gli ha permesso di godere e compensare il senso di tutte le miserie del loro mondo? “Se la vita ti affanna rullati una canna” recita il detto. “Perché no!”, verrebbe da rispondere; in fondo, uscirne dalla caverna è veramente difficile, è come giocare a uno contro tutti, è come essere Truman del film Truman show. Ecco, l’ho scritto senza accorgermene, senza volerlo, e penso che meglio di così, questo articolo non potevo finirlo. Truman, a conti fatti, nonostante tutto quel mondo che lo ha fagocitato fin dalla nascita, riesce a produrre un pensiero. Un pensiero importante, … autonomo … per riuscire a svincolarsi dall’oppressione del mondo fittizio che è stato costruito e pensato apposta per lui. Ma Truman riesce a intraprendere qualcosa che non va nella direzione dell’oggetto sostanza, ma del pensiero. Se Truman avesse avuto l’abitudine di “rollarsi i tromboni” avrebbe goduto di quelli, non del suo pensiero. Lui invece pensa, gli altri si nutrono, lui si dà da fare con il proprio desiderio, gli altri lavorano con i buchi … del corpo.

Note

[1] Baudrillard J., Cool Memories. Diari 1980-1990, Sugarco Edizioni, Milano 1991, p. 68.

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