Stochelo Rosenberg

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Non sono un chitarrista, sono un chitarrista manouche!

Intervista con Stochelo Rosenberg

di Pierluigi Sassetti

Non suonare mai la chitarra: non sarai mai bravo come tuo padre”.

(Django Reinhardt in punto di morte a suo figlio Babik)

Perchè essere difficili – quando – con un minimo sforzo si può diventare impossibili?

(Buster Keaton)

«All’epoca, avevo dieci anni, arrivò il momento in cui sentivo una forte, fortissima attrazione per la chitarra. Una cosa veramente difficile da spiegare a parole, una sensazione che è sempre rimasta uguale, ancora oggi. È strano, ma è stato come se mi fossi detto: «La chitarra … ecco il mio strumento». È stato semplicemente così, una cosa che è venuta da sé. Ho iniziato a imparare a suonare, con la chitarra dei miei cugini, che suonavano entrambi. Con quella chitarra ho mosso per la prima volta le mie dita su di una tastiera, ma non era come avere una propria chitarra. La prima chitarra che ho avuto è stata una chitarra classica, molto economica, qualcosa da venti euro, non di più. Mio padre non sapeva se avrei continuato a suonare. D’altra parte i mezzi economici non è che fossero molti, e comunque fui felice di quel regalo, eccome!».

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«Sono completamente autodidatta. Ho fatto tutto da solo. Non lo dico per vantarmene ma perché è vero. Ho semplicemente ascoltato ciò che veniva suonato, cercando le note giuste che venivano suonate. All’inizio era difficile, per tutta la vita ho sempre e solo imitato Django, cercato gli assoli di Django. Succedeva così: prendevo ad esempio Minor Swing, un pezzo di Django Reinhardt e ci suonavo sopra. Suonare quegli assoli diventò talmente gratificante per me che non facevo altro che suonare. Mi alzavo,ad esempio, alle otto di mattina, andavo nella mia stanza, una stanza piuttosto piccola, mettevo il disco di Django sul giradischi, e restavo tutto il giorno lì, fino alle sei-sette di sera. Ore e ore a non far altro che suonare. Non facevo altro, e ti devo confessare che non mi è mai costato fatica. Poi, naturalmente, come tutti gli altri bambini, giocavo con i miei amici, i miei coetanei ai classici giochi, ma io, sentivo che, a differenza di loro, avevo qualcosa che era la musica. Ad esempio accadeva che mentre stavo giocando con i miei compagni, mi distraevo facilmente perché ripensavo alla musica, agli assoli, alle note. Ripensavo alla musica, alle note di Django che avevo suonato o il giorno prima o pochi istanti prima. I miei amici giocavano ed io mi isolavo e dicevo tra me e me: “Ah, com’è quella cosa, come va suonata, come funziona?”. Smettevo di giocare e correvo verso casa nella mia stanza. Accendevo di nuovo il giradischi, mettevo di nuovo Django … «Ah, si, ecco, adesso ce l’ho». Capisci, le illuminazioni venivano in ogni momento, inaspettatamente, e l’unica cosa che potevo fare era quella di tornare a casa e rimettermi a suonare. Il piacere era doppio, non solo riuscivo a scoprire qualcosa di nuovo, ma riprendevo in mano la chitarra per altre ore».

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«Credo che la differenza stia nel fatto che noi non abbiamo avuto qualcosa del tipo: ti alzi alle sette per andare a scuola, poi nel pomeriggio vai a scuola di musica, e via dicendo. Come dire; non c’era un programma, non c’è mai stato. Nella nostra famiglia le cose stavano in maniera del tutto diversa, tutto accadeva per gioco, e tutto era un gioco. La mia famiglia è sempre stata una scuola di gioco, ma si potrebbe anche dire e interpretare come scuola di gente che suonava, suonava per suonare e niente di più. Si suona per tenersi compagnia, per ammazzare la noia, per mettersi alla prova o semplicemente perché ci va di farlo. Con il tempo poi abbiamo imparato a farlo per vivere. Ma a quel tempo, ti parlo di trent’anni fa, semplicemente, prendevamo la chitarra, ci sedevamo insieme … e tutto nasceva in modo del tutto spontaneo. Poi c’era sempre qualcuno che ti raccontava qualcosa, una storia un aneddoto, qualcosa da ridere, ed il tempo passava».

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«Questa è una domanda davvero difficile … non so come sarebbero andate le cose se avessi frequentato una scuola di musica, credo proprio che non sarebbe cambiato molto. Ho suonato con diversi musicisti, che sono andati a scuola di musica o al conservatorio. Non voglio certo dire che tutti siano così, ma le persone che ho conosciuto, soprattutto quelli che suonano musica classica, non sanno cosa voglia dire improvvisare. Conosco una violinista, suona divinamente il violino, fa un sacco di concerti, ma se il pezzo dura di più, lei non sa più che suonare. Deve scriversi gli assoli, … ed io le chiedo: «Perché li scrivi?». E lei mi risponde quasi imbarazzata: «Ho imparato così a scuola e non so improvvisare». Io credo che se si va indietro nel tempo, alle origini della musica, quando non c’erano i conservatori, le scuole di musica si può riscoprire certe abilità. Voglio dire che la musica è iniziata in qualche luogo, in qualche tempo … è stato l’uomo a crearla. Le scuole sono solo un aiuto, le note, le partiture, sono venute dopo, ma la musica, la vera musica, viene dal cuore, da corpo, e nel caso della musica che suono, il manouche, viene da una tradizione alla quale appartengo. E’ un’eredità capisci, c’è un legame quasi religioso, molto forte».

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«Mio padre era sempre con noi, sin dall’infanzia. Ciò che mio padre mi ha trasmesso … è stato il manouche, la musica di Django. Lui mi diceva sempre: «Stochelo, tutto quello che fai, puoi imparare stili musicali diversi, ma non dimenticare mai le radici della tua musica, e le radici della tua musica sono Django Reinhardt, non dimenticarlo». E’ stato come avere in eredità qualcosa, un’eredità appunto. Certo, quello che voglio dire è che Django era una cosa del tutto normale … era normale nella nostra famiglia che quando uno comincia a suonare la chitarra, dovesse partire dai pezzi di Django, altrimenti non sarebbe così interessante per la famiglia. Ma suono anche altro».

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«Ciò mi spinge a dirti che il mio hobby e anche il mio lavoro. Ma non sono un chitarrista, sono un chitarrista manouche! Ho imparato ascoltando Django ed oggi sono qui portando avanti quella musica, riproponendola, ed è a questa influenza che devo la mia fortuna, se è una fortuna. Perché avventurarsi in altri luoghi? Non mi suona bene».

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«Qualche volta mi capita di suonare con un’orchestra sinfonica, situazioni in cui ti trovi a suonare con organici fatti di bravi musicisti, bravi e preparati, che conoscono il significato di quelle palline nere e bianche che stanno su quei cinque righi. Sarebbe più semplice suonare con loro se sapessi leggere la musica, se avessimo una scrittura in comune da condividere. Di solito, in quelle situazioni, devo provare due o tre giorni per conto mio, memorizzare il tutto, non conoscendo l’arrangiamento. Memorizzare tutto è una gran fatica, e tutto questo può essere difficile qualche volta. Ho suonato anche la sinfonia di Django con Florin Nikolescu ed è andata bene anche senza partiture, è possibile anche senza spartiti. Inizialmente, le prime volte in cui mi ci sono trovato, è stato veramente complesso, ma non è un problema e non è mai stato un problema. Saper ascoltare la musica, questo è importante, e conosco persone che sanno fare questo, sanno ascoltare la musica entrarci dentro. Non sapendo leggere la musica, la sua grammatica, ho come sviluppato questo, ovvero il mio senso della musica. Saperla ascoltare, saperla cogliere, saperla mediare con la mia musica e intrecciarla. Certamente c’è sempre qualcuno che ti guarda dall’alto verso il basso, ma a me non importa».

 

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Intervista realizzata il 18/97/10 a Perugia in occasione dell’Umbria Jazz.

Traduzione dal tedesco a cura di Giuseppina Pagliafora

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