Franco Ferrarotti

 In Etica, Filo-sofia
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DI ANDREA CARNESECCHI E FRANCESCO PRATELLI

Vorrebbe raccontarci come nasce la sua passione per il sapere? La prima cosa a colpirci dei suoi libri, infatti, è stata proprio la passione e il coinvolgimento con cui sono stati scritti…

Vi ringrazio molto di porre questa domanda, che è una domanda naturale, quasi ovvia, e anche molto difficile. Perché si scrive? Non lo so, a volte mi domando se il mio grande amore per i libri, che è una “bibliomania”, quasi una “bibliofagia”, non sia che un dispetto verso mio padre che detestava la cultura libresca. Un po’ perché lui associava, forse inconsapevolmente – anzi, di certo inconsapevolmente – la cultura libresca con i libri degli avvocati, dei notai, e quindi la pagina bianca, la pagina scritta, per lui era in realtà la pagina di una contravvenzione o del fisco.

Dunque perché scrivere? È molto difficile dirlo. Intanto, come voi ben sapete dalle vostre esperienze, scrivere è un’attività nevrotizzante, non è affatto naturale. Tutte le altre attività sono molto naturali: mangiare, bere, evacuare, accoppiarsi… ma non lo scrivere. E anche oggi con i nuovi mezzi – i word processor, i computer, e via dicendo – in fondo ci si ritrova sempre fermi davanti alla pagina bianca. E la pagina bianca che cos’è? È una sorta di sguardo nell’abisso. Allora, cosa vuol dire scrivere? Scrivere, sostanzialmente – per rispondere brevemente alla vostra domanda, mi dispiace che non abbiamo troppo tempo – vuol dire, forse, rivivere ciò che si è già vissuto e quindi è una chiamata dal regno dei morti. Scrivere, in effetti, è un’attività che rasenta, sfiora, la necrofilia. Perché, in effetti, quando scrivo, io ricordo e in questo senso sono perfettamente uomo, donna, essere umano, perché gli esseri umani non sono nulla in senso assoluto, sono solo ciò che sono stati, ciò che ricordano di essere stati. Quindi c’è nella scrittura un tentativo di immortalità e la difficoltà estrema, la sofferenza implicita nello scrivere, è proprio direttamente, positivamente proporzionale a questo grande, a volte inconsapevole, scopo: quello di restare, di lasciare una traccia. Ma allora scrivere cosa vuol dire? Vuol dire testimoniare. Ma per testimoniare bene occorre imparare a scrivere, e per farlo serve tutta una vita, cosicché quando finalmente uno sa scrivere non ha più l’energia per farlo, è troppo vecchio.

Ripeto, vi ringrazio molto di questa domanda – che è una domanda a cui è impossibile di per sé dare una risposta – perché mi riporta ad una distinzione sottile. Infatti potreste chiedermi: «Ma allora perché oggi tutti scrivono? Perché oggi si scrive così tanto?». Stiamo attenti: come ci ha insegnato Roland Barthes, anche se non è stato lui il primo a dirlo, bisogna distinguere fra écrivains e écrivants, fra il vero scrittore – e ce ne sono pochi, tre o quattro ogni secolo, non di più – e lo scrivente, il puro scrivente. Non dirò “scribacchino”, perché ho troppo rispetto per l’attività dello scrivere, e neppure “pennivendolo”, ma comunque lo scrivente è colui che “giornalisteggia”. E infatti oggi gli scriventi primeggiano, sono più numerosi degli scrittori, e chi sono? Sono degli scrittori, certamente, scrivono, ma in qualche modo giornalisteggiano, sono a rimorchio dell’attualità, scrivono senza interrogarsi nel profondo, sarebbe troppo difficile, troppo doloroso, una grande sofferenza…

Anche spaventoso…

Eh sì, lei ha ragione, perché non si sa cosa può uscirne. È la stessa ragione per cui la gente che sta male, che è depressa, non va dallo psicanalista, perché teme questo disseppellimento dalle profondità. In fondo l’analista chi è? È semplicemente lo specialista che cerca di far dire ciò che si vuol nascondere; viene pagato per non fare niente, per ascoltare, ma ascoltare è sollecitare, obbligare. Siccome si fanno pagare un tanto ogni quarto d’ora, una volta li ho definiti i tassinari della psiche e se anche io non mi pento mai di nulla, perché quel che è fatto è fatto, quella volta…

Comunque, per concludere questa vostra domanda, perché scrivere? Veramente non lo so, può anche essere un effetto di masochismo, perché scrivere, in un certo senso, significa smettere di “fare”. Negli Stati Uniti, un paese che conosco bene, hanno una cultura nella quale il pensare tiene luogo del fare: al primo posto c’è colui che fa, il businessman, l’uomo d’affari, non l’intellettuale, e chi scrive, scrive gli affari, cioè di nuovo il fare. Il doer è colui che fa, mentre chi pensa viene considerato semplicemente una persona che non sapendo fare si limita a pensare. Pensare, invece, è di per sé l’attività che ci distingue dagli animali non-umani, perché noi siamo animali naturalmente, ma rispetto agli animali non-umani abbiamo questa cosa del pensare, del riflettere, del tornare su di noi ed esprimerci, quindi del parlare… homo confabulans. Quindi, parlando della scrittura, direi che occorre distinguere nettamente fra lo scrivente, il puro scrivente che non è necessariamente un pennivendolo, ma che è comunque qualcuno a rimorchio dell’attualità, e lo scrittore vero. Il vero scrittore è raro, perché è uno speleologo della psiche, scende nelle profondità, senza sapere se potrà riuscirne, se potrà riemergere. Lo scrivere, quindi, è una delle attività più pericolose, più pericolose del lavorare in miniera, perché si scende negli ipogei della coscienza senza avere un filo d’Arianna. Infatti, molti grandi scrittori hanno dato chiari segni di follia. C’è un elemento di turbamento profondo nella scrittura, ma perché? Perché in fondo può anche darsi che lo scrittore – e qui vi offro quella che può essere considerata la mia considerazione finale – ad un certo punto, si ritrovi ad essere un superstite, un sopravvissuto. Voi siete troppo giovani, ma chi ha fatto la guerra come me, sia la guerra civile che la guerra vera e propria, la guerra guerreggiata, sa che c’è una imbarazzata felicità nell’essere sopravvissuto, nel dire: «Io ce l’ho fatta, l’ho fatta franca».

Intervista realizzata il 22/10/19

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