Giuseppe Baldassarre – Attualizzare il mito. Osservazioni su Pasolini e la tragedia Greca
Nel terzo volume dell’opera collettiva dedicata ai greci¹, Diego Lanza nel suo saggio conclusivo, Dimenticare i Greci, mette in guardia dal voler forzatamente attualizzare ciò che si capisce bene solo se viene inquadrato in modo accurato nel contesto storico e culturale cui appartiene. Invita invece, soprattutto studiosi e insegnanti, a non fermarsi ad una lettura superficiale, che non tenga conto del significato dei vocaboli, espressioni, opere che avevano nel contesto storico e culturale cui appartenevano, perché questo è in qualche modo tradire, o almeno misconoscere, proprio quello che si cerca di voler salvare di quel mondo attraverso lo studio della lingua. Se ci si limita solo a cercare situazioni sulle quali proiettare modi di vedere e problematiche di oggi, meglio sarebbe dimenticarli, questi greci, conclude provocatoriamente lo studioso. Ma l’avvertimento è più un invito a rendersi conto della complessità dell’argomento trattato, perché non lo si riduca solo a formule da manuale scolastico.
L’importanza della cultura greca nella tradizione occidentale è tale da essere inevitabile che nelle varie epoche diversi autori si siano trovati a confrontarvisi, cercando anche quello che pareva più urgente, secondo le esigenze del momento. D’altronde l’eredità è tanto profonda e complessa che ricerche di tipo diverso sono sempre legittime e proficue.
Pasolini cercava nel mito tragico greco l’esemplarità di situazioni in cui evidenziare strutture e aspetti indicati dai nuovi studi dell’antropologia e della psicanalisi. La sua ricerca non è indagine filologica, ma attualizzazione secondo i nuovi punti di vista. Questa operazione non sminuisce l’originale, ma ne mostra la ricchezza implicita e dà al nuovo autore l’occasione di fare a sua volta opera d’arte.
Pasolini aveva studiato al liceo classico e poi alla facoltà di Lettere moderne a Bologna. Sappiamo che aveva letto Omero con passione. Una sua poesia è dedicata all’eroe troiano Ettore, del quale mette in risalto la solitudine nell’impegno di difendere la patria. Conosciamo anche tentativi di traduzione da Alceo e Saffo. Di Virgilio tradusse i primi 300 versi del primo canto dell’Eneide. Nel 1960 su richiesta di Vittorio Gassman tradusse l’Orestea di Eschilo. Tre anni dopo tradusse anche il Miles Gloriosus di Plauto, cercando di realizzare un linguaggio in qualche modo equivalente a quella che era stata per i Romani antichi la lingua plautina per tono, livello e inventiva, come si vede fin dal popolaresco titolo: Il vantone.
Queste traduzioni più impegnative lo portarono a scoprire da una parte la pesantezza della tragedia e dall’altra la leggerezza della commedia. La prima lo porterà alla trilogia tragica dei film Edipo re, Medea, Porcile; la commedia lo porterà invece alla trilogia, da lui definita «della vita», costituita dal Decameron, I racconti di Canterbury e Il Fiore delle Mille e una notte. Dice Franca Angelini riguardo a queste traduzioni da Sofocle e Plauto: «L’incontro ha un valore ancor più profondo perché annuncia quel nuovo “desiderio” di orientare la propria immaginazione, prima, in quel punto dove si ambientano i miti di formazione dell’uomo occidentale» ².
La traduzione di Eschilo porta Pasolini a «Fissare nel mito greco tematiche come quella del destino e della lotta tra padri e figli». Dà egli stesso l’interpretazione, in appendice all’Orestiade:
La trama delle tre tragedie di Eschilo è queste: in una società primitiva dominano dei sentimenti che sono primordiali, istintivi, oscuri ( le Erinni), sempre pronte a travolgere le rozze istituzioni […] operanti sotto il segno uterino della madre, intesa appunto come forma informe e indifferente della natura. Ma contro tali sentimenti arcaici, si erge la ragione (ancora arcaicamente intesa come prerogativa virile: Atena è nata senza madre, direttamente dal padre), e li vince, creando per la società altre istituzioni, moderne: l’assemblea, il suffragio ³.
Il mito greco quindi da Pasolini è letto attraverso le categorie dell’antropologia, dell’etnologia, della storia delle religioni (di Frazer, De Martino, Lévi-Strauss, Mircea Eliade), della politica e dell’economia di Marx, della psicanalisi di Freud e Jung.
Le opere che più esplicitamente esprimono l’interpretazione del mito sono i due film Edipo re (1967) e Medea (1970). Il primo riprende l’omonima tragedia di Sofocle, con l’aggiunta anche di elementi dall’Edipo a Colono. Il racconto delle sventure del personaggio diventa pretesto per una rivisitazione della propria storia personale. Le scene iniziali e conclusive ambientate in luoghi dell’Italia contemporanea corrispondano chiaramente a quelle della propria storia e contemporaneamente evidenziano il valore simbolico di quanto rappresentato dal mito greco.
Così diceva Pasolini in un’intervista:
Avevo in mente due obbiettivi: primo, presentare una sorta di autobiografia completamente metaforica e quindi mitizzata; secondo, affrontare sia il problema della psicoanalisi sia quello del mito. Ma anziché proiettare il mito sulla psicanalisi, proiettare la psicanalisi sul mito. Fu questa l’operazione fondamentale in Edipo ⁴.
La Grecia qui rappresentata è quella primitiva, arcaica, in cui ancora non si è affermata la civiltà razionale. È l’interpretazione che Pasolini dà con piena consapevolezza, già affermata a proposito della traduzione dell’Orestea e poi ripresa nel film Appunti per un’Orestiade africana, a proposito del quale dice: «Mi sembra che la società tribale africana assomigli alla società arcaica greca». Per Pasolini la barbarie è un valore, esprime un mondo che si pone come “unica alternativa” alla mercificazione dei luoghi civilizzati. E questa società primitiva, arcaica, non deve essere disprezzata e dimenticata, ma va integrata con quella nuova. Su questo aspetto dell’opera Pasoliniana è basilare il saggio di Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, edito dalla Nuova Italia nel 1996, la cui analisi dei film pertinenti è particolarmente approfondita e interessante.
Anche Medea rappresenta, ancora con maggiore evidenza, una situazione di forte contrasto tra la società della Colchide, arcaica e primitiva, e quella geometrica e razionale di Corinto, alla quale l’eroina si ritrova estranea anche dopo avervi dimorato dieci anni. Scenografia, costumi, recitazione lenta e icastica, la prevalenza del silenzio sulla parola sottolineano questa interpretazione. È una Medea barbara, quindi più di quella che appare nella tragedia euripidea. In un’intervista l’interprete, Maria Callas, dice che il personaggio è stato costruito da Pasolini assieme a lei e aggiunge: «Spero di essere riuscita a far venire fuori l’umanità di Medea il più possibile» ⁵.
Questa Medea in effetti presenta gli aspetti più istintivi della tragedia euripidea e in lei prevale pienamente la passionalità rispetto al lógos. La parte riflessiva ( i bouleùmata euripidei) qui ha meno spazio nello scontro con la parte passionale (il thymós), mentre «in Euripide il discorso razionale conserva la sua importanza anche nei drammi mossi dalle passioni più vive», come dice Albin Lesky nella sua Storia della letteratura greca (1962).
Qui invece la protagonista ha un distacco totale dal mondo greco razionale e si sposta nel suo mondo pieno di sacralità e gestualità arcaica e prelogica. La ninna nanna che canta al figlio perché si addormenti prima di ucciderlo appartiene a questo mondo semplice e magico.
Quella Grecia così arcaica nell’Edipo e che nell’Orestea scopre la razionalità con l’intervento di Atena, nella Medea diventa invece simbolo della razionalità in cui tutto, anche il dolore e la disperazione, si snatura e si appiattisce. E qui più evidente è il conflitto non risolto dell’autore tra civiltà primitiva e civiltà evoluta, tra un passato lontano, rozzo, primitivo, pieno di sacralità e un presente tecnologico, eccessivamente razionale, dissacrato.
Sia in Edipo che in Medea c’è il trasferimento di problematiche moderne, interpretate, come si è già detto, grazie a categorie delle scienze moderne, come l’antropologia e la psicanalisi. E il mito si offre bene a questa operazione. Il racconto mitologico si svolge regolarmente nella versione tradizionale, ma assume significati specifici evidenti. Il mito greco quindi diventa sia rispetto del passato, della distanza, della sacralità, della unicità, sia strumento interpretativo del mondo o dei suoi diversi aspetti, legittimo per ogni tempo.
Questa operazione, attraverso un linguaggio cinematografico lento, curato, carico di pathos, diventa essa stessa operazione emblematica, in grado di cogliere la carica archetipica contenuta nel mito. E contemporaneamente ricrea un’opera d’arte che si colloca accanto a quelle già prodotte, che sono servite da modello.
L’operazione di attualizzazione del mito tragico se, da una parte è incompleta e tradisce, dall’altra è in grado di cogliere aspetti nuovi dell’opera che, in quanto classica, non ha finito di comunicare quello che ha da dire (secondo una delle definizioni di “classico” date da Italo Calvino).
Tornando al rischio indicato da Diego Lanza nella citazione presentata all’inizio mi pare che questo modo di procedere di Pasolini non venga ad essere misconoscimento della specificità di ciò che appartiene al mondo greco, anzi è un’operazione che può fornire indicazioni per conoscere meglio le valenze del mito, aiuta a capire aspetti importanti dei Greci. Si potrebbe dire che la Grecia, più che artificiosamente attualizzata risulta per vari aspetti quasi immanente all’oggi; è il presente che in qualche modo si grecizza, acquista profondità, spessore temporale e concettuale.
E si potrebbe citare in conclusione, riguardo a Pasolini e il mito il verso di Costantino Kavafis:«Senza cultura ellenica non siamo, credo. No? ». un cultura di cui è necessario avere consapevolezza e con cui è sempre proficuo confrontarsi e dialogare.
NOTE:
¹I Greci oltre la Grecia, Torino, Einaudi 2001.
²Letteratura italiana. Le opere, Torino, Einaudi 1996, vol. IV, 2, p.837
³P.P.PASOLINI, Teatro, Milano, Mondadori 2001, p. 1009.
⁴Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Parma, Guanda 1992, p. 110.
⁵Medea. Un film di P.P. Pasolini, Milano, Garzanti 1970, p. 20; l’intervista è a cura di G. Gambetti
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