Il Delirio Mistico

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di Alessandro Guidi

mistica-copia

 

La follia e la psicosi

Il concetto di delirio mistico obbliga, ogni volta, colui che parla a dire qualcosa intorno alla follia e intorno alla distinzione che esiste nella psichiatria e nella psicoanalisi tra ciò che è normale e ciò che è patologico. Sarà il taglio psicoanalitico di questo mio intervento a fare da cornice alla questione del delirio, inteso sia come fenomeno trasversale nella clinica, sia come ciò che appartiene, in modo specifico, al misticismo e al delirio psicotico con modalità mistiche. C’è un’affermazione esemplare di Lacan che ci introduce alla questione della follia intesa come elemento dell’essere dell’uomo da distinguere appunto dalla psicosi come struttura del soggetto, inteso come risultato dell’Altro genitoriale e in modo specifico come il risultato del difetto della metafora paterna:

”L’uomo non può essere compreso senza la follia intesa come limite della sua libertà”.

Qui Lacan compie un’operazione radicale e diversa rispetto alla psichiatria, alla quale appartiene per formazione: infatti considera la follia come un’espressione appartenente alla libertà dell’uomo piuttosto che appartenente a qualche categoria nosografica e diagnostica. Se ne può dedurre che la follia appartiene all’uomo, inteso come essere sociale che compie degli atti contrari alla Legge o che compie delle azioni che vogliono dimostrare un’idea di libertà diversa rispetto a quella esistente e che possiede per trasmissione familiare oppure che possiede per una personale costruzione Ideale e che ha a che fare con una immaginaria azione che riguarda la libertà degli altri. In tutti questi casi, comunque, la follia interessa l’uomo in quanto scelta etica del soggetto inconscio inteso come ciò che è stato determinato dalla economia pulsionale di cui è composto e che costituisce un limite per la sua azione.
Accanto a questa affermazione psicoanalitica sulla struttura dell’essere dell’uomo inteso nella sua normalità, vi è la dimensione clinica che distingue la psicosi, considerata come stato originale dell’infans, ovvero del bambino identificato completamente al fallo immaginario materno e assorbito in questo oggetto, che indica ciò che manca alla madre, dalla nevrosi che designa invece lo stato di alienazione necessaria in cui il soggetto infans va a costituirsi nel linguaggio dell’Altro genitoriale e familiare passando dall’interdizione della Legge del Nome del Padre (metafora paterna): si passa dunque da Tutti gli uomini delirano (psicosi iniziale dell’essere dell’uomo) al particolare Non tutti gli uomini cessano di delirare (nevrosi e psicosi strutturale del soggetto ma anche follia come scelta sociale del soggetto). Questo passaggio, che ho reso veloce per arrivare al punto che mi interessa trattare ovvero al delirio mistico nella clinica psicoanalitica, ci indica come sia possibile che l’essere dell’uomo sia strappato dalla psicosi iniziale verso una normale soggettività nevrotica, ma che questa operazione non è automatica né definitiva, in quanto può non avvenire e comunque possono configurarsi nel corso dell’esistenza dell’individuo stati deliranti di natura nevrotica come per esempio il delirio mistico.

 

Il delirio mistico

Il delirio mistico secondo la psicoanalisi è una particolare costruzione soggettiva che appartiene alla clinica differenziale delle psicosi e delle nevrosi dove, nella prima, il delirio si pone come risoluzione salvifica immaginaria e compensatoria della psicosi scatenata, come per esempio accade nel caso del presidente Schreber, mentre nella nevrosi il delirio mistico si pone come risposta sintomatica del soggetto diviso alla perdita dell’Unità edipica con l’Altro paterno, vissuta dal soggetto come perdita radicale di un Amore totale con l’Altro ed è ciò che vediamo nelle grandi mistiche come Teresa d’Avila o Teresa di Lisieux oppure in Giovanni della Croce. Mentre nella psicosi del presidente Schreber il soggetto si identifica a Dio, fino a credersi Dio Creatore, cioè diventa un tutt’uno con Dio a partire dall’essere e dal pensarsi sua sposa, che è lo stato iniziale di un’evoluzione immaginaria del desiderio di Schreber (fenomeno transitorio del sintomo psicotico) che lo porterà fino alla procreazione delle Creature e lo porterà dunque a realizzare il desiderio di essere donna attraverso l’esser madre: “Ciò che si pretende è che io rappresenti me stesso come uomo e come donna in una persona, che copuli con me stesso” e ciò ci dice del continuo godimento assicurato permanentemente così come all’origine della vita c’è lo stato di delirio continuo fusionale con l’Altro o Cosa.
Invece nel delirio mistico nevrotico, per esempio di Teresa d’Avila, non c’è identificazione con Dio, infatti Teresa è solo la sposa di Dio ma non è Dio; Teresa sa bene, e lo dice anche, che se si identificasse a Dio, l’Altro, ovvero Dio stesso, scomparirebbe e questo non è ciò che Teresa vuole. Teresa vuole mantenere una distanza con l’Altro, l’Assoluto, che le consenta così un dialogo continuo con l’Altro stesso e la posizione etica che accompagna questo suo desiderio riguarda l’umiltà: “Io non sono niente” , dice Teresa nella sua autobiografia, mentre Lui per Teresa è tutto. In Teresa ci sono tutte le astuzie teologiche per mantenere vivo il rapporto con l’Altro amato (Dio): tutta la sua mistica consiste in questo costruire e mantenere tale distanza e questo è il suo godimento o meglio in questa continua strategia vi è ciò che Lacan chiama l’Altro godimento appunto:

“Un godimento che sia al di là, il godimento dei mistici“ .

Con la differenza tra delirio mistico nevrotico e psicotico ho messo in luce come il misticismo nevrotico, secondo la psicoanalisi, è stato portato alle estreme conseguenze dalle grandi mistiche come Teresa d’Avila o Teresa di Lisieux, le quali prima di essere delle mistiche, di arrivare cioè a fondare il loro essere nell’estasi mistica, sono delle donne che hanno risolto misticamente le gravi crisi depressive in cui sono incorse a causa della morte precoce della madre (all’età di 33 anni muore la madre di Teresa d’Avila che ha solo 12 anni, mentre la madre di Teresa di Lisieux muore quando quest’ultima ha solo 4 anni) ed inoltre si sono impegnate edipicamente a raggiungere l’unità con l’Altro dell’Amore, unità alla quale inconsciamente ogni donna, come ci ricorda Lacan, aspira attraverso l’idealizzazione incorporata del padre reale. Essere tutt’uno con l’Altro è un obiettivo raggiunto dalle due Terese attraverso una risposta straordinariamente organizzata ed una costruzione raffinata e poetica tanto da rappresentare per molte donne del loro tempo la punta più avanzata di un percorso di conversione che per la psicoanalisi corrisponde alla sublimazione.

La cura del sintomo delirante di natura mistica

La madre di Teresa d’Avila le lasciò in eredità la grande passione per i romanzi cavallereschi dai quali Teresa estrasse il loro insito carattere combattivo, fantasioso e utopistico che, unito all’amore per il Signore, svilupparono in Teresa una tensione verso un sentire mai banale raggiunto nell’immaginazione, ma anche nei tentativi di fuga verso terre lontane, come la terra dei Mori. Questa precoce tensione verso l’Assoluto la portò a vivere intensamente la realtà del proprio corpo e a toccare dunque il fondo dell’esistenza attraverso crisi nervose (per la psicoanalisi queste crisi sono paragonabili a veri e propri stati di tensione verso l’Altro, in questo caso Dio il quale esige uno sforzo sovraumano per arrivare a dialogarvi) lenite solo con ciò che poteva rendere Teresa umile al cospetto di Dio, umiltà intensa e rivolta all’Altro attraverso la preghiera. Per arrivare a essere soddisfatta e godere pienamente, liberandosi di ogni immaginaria competizione con l’altro sesso, e per risolvere il sintomo isterico, che impedisce alla donna di godere, Teresa ha dovuto toccare il fondo fino a sfiorare la morte e solo allora, laddove l’isterica non gode perchè non può avere ciò che l’altro ha ovvero il fallo, la mistica, invece, va oltre e supera la contingenza dell’altro terreno incarnato nel fallo; la mistica sublima la pulsione carnale e trasforma il corpo in ”fiori di carne dell’anima”:

“Così, per quanti tentativi io faccia, per molto tempo nel corpo non ci sono forze sufficienti a farlo muovere: tutte le ha portate via con sé l’anima”.

Così scrive Teresa d’Avila nella sua biografia “Il libro della mia vita” descrivendo la sua ascesa verso l’estasi. Dunque l’interesse della psicoanalisi per le mistiche parte dalla lettura e interpretazione ed elaborazione della vita e dei testi di Teresa d’Avila, di Teresa di Lieseux o di altre minori e la lettura conduce sempre gli analisti a considerare la donna mistica come un soggetto che ha trovato una risposta alla sua impotenza di donna, che non riesce a godere con un uomo reale perchè isterica, consegnando il proprio corpo sacro, non tanto alla ospedalizzazione medica, come hanno fatto le isteriche dell’ottocento al tempo di Charcot e Freud, ma alla Chiesa e ai suoi padri. Così farà nel 1500 Teresa d’Avila e sorprendentemente alla fine dell’ottocento Teresa di Lisieux; questa consegna avviene perché nessun uomo reale in carne ed ossa può garantire alla mistica ciò che non ha e allora la mistica stessa fa parlare Dio, inteso come l’Altro di cui può godere attraverso la parola che essa ascolta e sente e lo può fare tenendo presente, in cuor suo, il padre reale idealizzato che ha perso:

”Da suo padre Teresa passa a Dio, ma non senza assicurarsi dei punti di riferimento nella persona dei padri che la confessano e le garantiscono le sue azioni e le sue parole. D’altronde è tutto ciò che chiede agli uomini. Del pene non se ne parla neanche. Tornerà sublimato sottoforma di ostia”.

Con il misticismo l’impotenza dell’isterica si trasforma in un pieno godimento Altro nel quale, senza rinunciare all’Altro amato, coglie e tocca le più altre corde della propria maestria artistica nella poesia e nella scrittura. Teresa ama Dio e ama tutti i suoi padri-uomini che la confessano e le garantiscono le sue azioni: chiede loro di essere i testimoni e i garanti dei suoi atti, cioè di tutto ciò che costituisce il suo progetto personale. Che Teresa abbia un progetto personale lo testimonia lo spostamento del desiderio dal pene all’ostia, un trasloco metonimico che è anche un investimento che riguarda il sapere sull’Amore di tutto ciò che ha a che fare con l’Altro assoluto con il quale dialoga. Allora i padri sono chiamati a essere i testimoni di questo spostamento metonimico e di questa sublimazione nonché del progetto nel quale lo spostamento riveste un preciso punto sapienziale: ciò ci dice che la mistica agisce per il proprio desiderio, che ha come oggetto il desiderio dell’Altro che la mistica stessa ha incontrato uscendo dall’amore edipico idealizzato con il padre reale.
Il superamento dell’isteria e del sintomo che la rappresenta – la compiacenza somatica del corpo fisico inteso come luogo metaforico e simbolico del compromesso sintomatico espresso dal significante di riferimento – avviene con il delirio mistico e ciò fornisce delle indicazioni all’impasse del sintomo isterico: nella nevrosi non esiste un’allucinazione dell’oggetto paragonabile al delirio psicotico, infatti l’oggetto d’amore nell’isteria si è arenato nell’idealizzazione del padre reale, l’isterica non è andata oltre o non vuole andare oltre cioè non vuole e preferisce invece mantenere Idealizzato l’Altro in cui è alienata e ciò procura l’affetto depressivo dell’isterica. Questo tipo di affetto schiaccia il soggetto in una lamentela continua, lo schiaccia in una routine estraniante giornaliera senza azione, senza progetto e senza sapere: è ciò che Lacan chiama “viltà morale” e Carmelo Bene nella elaborazione del teatro di Shakespeare chiama “il vivacchiare”, la vita che viene vissuta vivacchiando.
Ciò che spesso incontro nella mia pratica analitica è proprio il “vivacchiare” del soggetto donna che porta un sintomo depressivo isterico, sintomo dell’attaccamento adesivo all’Altro genitoriale in cui il soggetto donna è alienata; pertanto l’analista, in questo caso, è chiamato a rivestire nel transfert il ruolo del padre testimone della lamentela e complice dunque di questa alienazione: mancano a queste donne isteriche le azioni che contraddistiguono la risposta mistica all’alienazione e all’affetto depressivo dell’isteria. Quali azioni? 1) Prima di tutto l’azione analitica che deve essere sposata nel transfert – mi faccio padre come l’isterica vuole per spostare l’attenzione sulla madre e sul legame con la figlia – che è ciò che rende la psicoanalisi nel suo farsi una dialettica ad azione etica:

”In una psicoanalisi il soggetto si costituisce, propriamente parlando attraverso un discorso in cui la sola presenza dello psicoanalista apporta, prima di ogni intervento la dimensione del dialogo … La psicoanalisi è un’esperienza dialettica e questa nozione deve prevalere quando si pone la questione del transfert…”.

La prima azione da parte del paziente-analizzante è dunque quella di costituirsi nella cura parte non inerziale o passiva con l’analista, il che vuol dire che l’analista deve essere messo nelle condizioni di poter dialogare da una posizione riconosciuta di verità, o meglio di padre della verità del soggetto inconscio. 2) La seconda azione riguarda ciò che nelle mistiche corrisponde al progetto personale dell’Amore e del godimento dell’Amore dell’Altro, dal quale deriva l’unico sapere rivelato: nelle mistiche l’Altro dell’Amore è Dio, e dunque il loro unico sapere riguarda il loro inscriversi nella tradizione Patristica della Chiesa e nella spiritualità dell’anima; le mistiche cercano di percorrere attraverso un cammino spirituale le vie del sapere che le porteranno vicine a Dio, all’Altro dell’Amore, nel reale del loro godimento: quest’ultimo godimento non si dice, non si può dire fino in fondo, ma loro comunque lo dicono e dicono di godere e tentano di dirlo con la scrittura :

“Nel “Castello interiore” di Teresa D’Avila – come in ogni libro di mistica – c’è la ricerca dell’Assente fino all’incontro con l’Amato. La vicenda di chi soffrendo di questa assenza essenziale si colloca nel lutto, in uno spazio che non è nel cielo né sulla terra e in una condizione che, rispetto all’Amato non è né di uomo né di donna”.

Dunque la scrittura è il luogo, lo spazio, e il mezzo dove si va oltre il quotidiano e il suo arenarsi alienante nell’Altro genitoriale dell’origine: l’isterica non sa, non scrive e dunque non può nominare chi è, la mistica invece ha un progetto e si nomina attraverso l’Amato-Dio in quanto inscrive il proprio corpo e la propria anima nella tradizione della Chiesa. 3) Infatti Teresa, ed ecco il terzo grande ramo del progetto personale, vuole riformare la Chiesa e la sua spiritualità dall’interno ed è per questo che fonda un Ordine, quello delle carmelitane. Dunque la parola mistica, (o del dire che si lascia sentire), la scrittura, come esperienza del divino nella lettera e le azioni rifondatrici e riformatrici sono le azioni che le mistiche vogliono testimoniare ai padri assunti come testimoni e sostenitori del progetto.
Ci possiamo chiedere quali azioni testimoniano oggi le donne all’analista, non essendo più riconosciute dalla cultura dominante come isteriche – l’isteria non è più presa in considerazione, come sintomo nevrotico, dal DSM – portano spesso un sintomo affettivo-depressivo che l’analista, invece di sostenere, deve in vari modi rifiutare e tentare di inscrivere la donna-isterica nell’unico progetto sapienziale che la possa portare verso l’Amore, oltre il padre, verso l’Amore del sapere. Non di un sapere qualunque, ma del sapere dell’inconscio nel punto dove la scrittura, la parola e l’azione, pur rimanendo saldamente nel mistero di ciò che solo chi sente può dire qualcosa della propria sofferenza e patimento, può tentare di comunicare e porre ciò come punto di partenza per un progetto che abbia in sé un’idea riformatrice, non tanto della Chiesa, ma dell’Istituzione sociale (dalla strada, alla famiglia, alla scuola ecc.).
Dunque la cura non è rivolta tanto al delirio mistico, perché di questo delirio oggi se ne sono perse le tracce. La cura va rivolta a quel delirio non mistico, a quel delirio della lamentazione quotidiana e a quella sensazione di abrasività all’Altro che ci dice come la clinica faccia fatica a individuare, oggi, un sintomo inteso come compromesso del rimosso, a meno che non si pensi al sintomo come a ciò che coincide proprio con lo stesso godimento della lamentazione, inteso come indice di quel luogo Altro che garantisce un luogo certo e senza modificazioni spaziali da dove il soggetto moderno trae la garanzia perversa del proprio lamentarsi. La cura analitica, quando funziona, avviene insieme e queste splendide parole di M. de Certeau lo mettono in evidenza:

”Ciò che esse mettono in gioco (la donna mistica e l’amato) non è dunque riducibile ad un interesse per il passato e nemmeno ad un viaggio nella memoria. Statue innalzate sui limiti che instaurano un altrove che non è da nessuna parte, questo altrove loro lo producono e lo difendono insieme. Essi formano con i loro corpi e i loro testi una frontiera che divide lo spazio e trasforma il loro lettore in abitante delle campagne e dei sobborghi lontano dalla utopia dove essi collocano l’essenziale”.

Al contrario questi luoghi e questi spazi dell’altrove sono i luoghi dove si colloca quel godimento oltre il fallo che indica quel particolare soggettivo dove il soggetto donna, e ogni uomo che lo voglia, può arrivare per sostenere la propria particolarità, il proprio stile e la propria storia personale estratta da quella dell’Altro familiare. “Il Castello Interiore” di Tesesa corrisponde a questa costruzione, dove ci sono spazi comuni, spazi per due e ci sono anche spazi segreti e privati ma anche spazi ancora da scoprire, sempre, dovunque e altrove. “Il Castello interiore” è l’ultima opera di Teresa D’Avila scritta a 62 anni all’uscita di una grave crisi psichica e questo ci dice per esempio, come sottolinea intelligentemente anche James Hilmann, che una crisi psichica non va considerata un evento distruttivo patologico da curare con lo scopo di eliminarla. Scritto altamente politico che sta dentro la storia del suo tempo contro il potere dominante, “Il Castello interiore” è stato scritto “tutto d’un fiato” di getto come ha fatto Kafka, o come i grandi romanzi di Dostoevskij. Ma questa opera, questa allegoria del “Castello” non può essere frutto di un’ispirazione occasionale bensì il complesso lavoro di dolore, tensione e godimento verso una gioia intellettuale artistica al centro della quale in una zona periferica nascosta c’è il tesoro di Teresa che le parole di Lacan mettono in evidenza in tutta la loro portata curativa:

”C’è un godimento di lei, di questa lei che non esiste e non significa niente. C’è un godimento di lei di cui forse lei stessa non sa niente, se non che lo prova – questo lei, lo sa. Lo sa, naturalmente, quando capita. Capita non a tutte” .

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