Di Mistero in Mistero sono arrivato alla Psicoanalisi

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Intervista ad Alessandro Guidi

Di Andrea Carnesecchi

Carnesecchi: Le farei una domanda giusto per partire: sono al terzo anno di filosofia, e per buttare giù questa lista di domande mi ci è voluto un bel po’ di tempo. È stato come se mi avessero dato, a un esame, il compito più difficile in assoluto… Sono completamente disabituato a fare cose del genere.

Guidi: Perché c’è una disabitudine a domandare. La questione della domanda è una cosa centrale oggi, perché domandare significa appunto manum dare, dare una mano perché si ha bisogno d’aiuto. Naturalmente, per avere bisogno d’aiuto, bisogna sentire di averne bisogno e ciò implica una umiltà necessaria per chiedere aiuto. Invece oggi, anche nei giovani studenti o nei trentenni etc. che sono già laureati, al posto della domanda c’è l’affermazione. L’affermazione è una cosa, domandare è un’altra. Questo te lo posso dire con certezza perché, al momento, sto realizzando questo Seminario sul Trauma e la vita, qui al Centro d’Ascolto e Orientamento Psicoanalitico. Che cosa vuol dire seminario? Vuol dire gettare dei semi. Chi ascolta poi raccoglie questi semi e li sviluppa a suo modo. Per cui, chi si iscrive, deve aspettarsi questo, non altro, gli iscritti non possono fare delle affermazioni. C’è sempre chi dice: “Ma io non sono d’accordo!”. Se non sei d’accordo, non puoi venire a contrastare: costruisci un tuo seminario! È questo il punto, cioè non c’è più l’abitudine, anche nei giovani, a fare delle domande di chiarimento. Come sappiamo dal Discorso Psicanalitico applicato ai legami sociali, (i Discorsi formulati da Jacques Lacan sono appunto cinque), il quinto Discorso è quello del Capitalista, che Lacan tracciò su una lavagna nel ‘72 a Milano, ed è fondamentale. In questo Discorso il Nome-del-Padre è presentato come evaporato. C’è una crisi del Nome-del-Padre. La funzione del Nome-del-Padre ha delle caratteristiche precise, una di queste e degli elementi che costituiscono il Nome-del-Padre, dal punto di vista epistemologico ed etico, è proprio la capacità di domandare, la capacita di… diciamo… trovare l’umiltà per domandare all’altro. A quale altro? A un docente? A una persona che suppongo ne sappia più di me perché è di una generazione precedente? Per cui, ed ecco un’altra caratteristica che non esiste più oggi, ci deve essere il rispetto generazionale; ovvero, l’ascoltare qualcuno, che suppongo ne sappia di più e che io ho scelto per interrogarlo, se ho scelto e suppongo che l’altro ne sappia di più, non posso fare alcuna affermazione. Posso fare una domanda di chiarimento, questo è importante. Quindi, la disabitudine a porre domande deriva da queste assenze. Una cosa è l’inibizione, cioè: “Ho una domanda e non mi riesce farla”, altro conto è “al posto della domanda faccio un affermazione”. Questo è un altro discorso.

Carnesecchi: L’inibizione, c’è anche quella …

Guidi: Vabbè ma quella si supera …

Carnesecchi: Però, studiare filosofia, che non è esattamente né medicina né matematica, ed arrivare al terzo anno senza avere una domanda personale da porre a nessuno è inquietante. Personalmente, in primis, ho voluto fare questa intervista perché Pierluigi Sassetti me ne ha dato la possibilità per uscire un po’ come da una specie di torpore, perché alla fine rimani in un “calduccino” confortante e non fai niente.

Guidi: Esatto. Tu hai detto due cose, il “torpore”, il “calduccino”, cioè: c’è un clima di protezione, diciamo, che nei due genitori è appannaggio della madre, la madre che protegge. Tu pensa che, tanto per dirne una, sai da dove viene la parola piacere? Qual è l’etimologia? Da placenta. Il piacere o placenta, cioè tornare nella placenta materna, questo è un po’ inconsciamente la tendenza, o nel nirvana o nella talassa oceanica. Placenta, quindi un calduccino soporifero, è questo no?

Carnesecchi: Certo, ma anche all’interno dell’università. Secondo lei è possibile instaurare con un docente universitario un rapporto come può essere quello che io ho con Pierluigi Sassetti, ovvero un rapporto creativo e producente, o un rapporto differente da quello standard, da quello classico del professore-alunno che mi sembra che non sia poi un granché?

Guidi: Il rapporto professore-alunno si fonda sulla questione che il professore sa, e l’alunno, diciamo, è lo schiavo, il servo che fornisce al professore gli strumenti per saperne ancora di più. Questo è il discorso no? Si guarda fra le tesi universitarie, le ricerche di dottorato: sono tutti lavori fatti da studenti che permetteranno poi al professore, di metterci sopra la firma, accaparrandosele. Questo è! Allora, tornando alla tua domanda: è possibile un altro tipo di incontro? È possibile, certamente, ma gli incontri significativi nella vita, che siano dentro o fuori l’università, sono pochi. Si contano sulle dita di una mano, e sarebbero anche troppi. Quando facevo le scuole superiori, se mi permetti di fare un discorso personale, tanto per fare un esempio, alle magistrali, ebbi la fortuna di incontrare Sergio Finzi. Insegnava filosofia, a quei tempi era redattore di una rivista che allora andava molto bene, Utopia, poi fondò un’altra rivista, Il piccolo Hans.

A quel tempo, Sergio Finzi era professore di filosofia, e se non ricordo male, quello sarebbe stato l’ultimo anno che avrebbe insegnato alle scuole superiori, per poi passare, come poi fece, al lavoro psicoanalitico. Difatti, aprì un suo studio di psicanalisi a Milano in San Babila e lì iniziò la sua carriera di psicanalista. Ed io con lui ho instaurato un feeling particolare, rispetto a tutti gli altri docenti di quella scuola. Non capivo niente di quello che spiegava, che diceva alle lezioni, perché era complicato; però c’era qualcosa che mi appassionava e mi interessava. Capivo la metà delle cose, però sentivo che c’era qualcosa d’interessante che mi entusiasmava, e da lì iniziai ad andare a trovarlo anche fuori della scuola. Abitava in via dei Fossi qui a Firenze, in una mansarda, e ricordo bene che mentre lui scriveva, scriveva e ragionava, io me ne rimanevo lì con lui affascinato da quel personaggio. Tra l’altro, poi, l’ho seguito per altri cinque anni a Milano incontrandolo ogni quindici giorni all’ex ospedale psichiatrico Pino Pini dove teneva i suoi seminari, molto complicati, molto difficili. Ed anche lì capivo il 40%, ma non mi interessava, sono andato avanti per cinque anni fino a che poi pubblicai sulla rivista Il Piccolo Hans, il primo articolo che ho scritto. Avevo ventisette anni e, con quell’articolo, toccai il cielo con un dito.

Quindi, tornando alla questione se è possibile che ci sia un feeling con l’insegnante, rispondo che il feeling non basta, servono altri due componenti fondamentali: la passione dello studente verso il sapere e al tempo stesso anche la persona giusta che ti possa aprire una strada in relazione a ciò che senti. L’altro deve accogliere questa tua tensione, ma non stravolgerla. Ricordo ancora di Finzi, di come gli altri venti alunni della classe in cui stavo non capivano niente, ma lui dava a tutti sei. Lui continuava a parlare come sapeva parlare, con quel linguaggio difficile, che a differenza dei miei compagni di classe, a me, attraeva, mentre gli altri studenti rimanevano pressoché indifferenti. Gli altri prendevano sei, io prendevo nove perché c’era questo continuo feeling che era il mio interesse. In questo caso, però, non si può parlare di sistema scolastico. Si può dire in modo molto più corretto che all’interno di un sistema scolastico ci sia un rapporto preferenziale con un professore perché l’incontro si è realizzato, per un rapporto uno-a-uno che fa la differenza. L’incontro, non può essere con l’istituzione, l’incontro è sempre qualcosa che si realizza con un soggetto in carne ed ossa.

Mi ricordo un’intervista di Elvio Fachinelli, analista milanese morto da diversi anni, in cui lui parla del grande feeling che aveva con Jacques Lacan. Facchinelli andava a Parigi ad ascoltarlo, e una volta gli disse: “Guardi, per me lei è il mio maestro, la seguo da tanti anni, la leggo, ma vorrei chiederle: Perché vuol metter su una scuola? Cosa se ne fa?”. E Lacan rispose: “Mah, questa è una mia esigenza”. “Va bene”, rispose Fachinelli, ma aggiunse: “Ma la questione analitica transferale?”. Il transfert, la formazione, passa dal maestro all’allievo, punto, non dall’istituzione. Quindi è possibile trovare un professore che ti possa appassionare all’interno del sistema scolastico, ma non ti può appassionare certamente il sistema scolastico, questo no.

Carnesecchi: per esempio, secondo lei, perché, dal mondo della filosofia, oggi, non si può più arrivare alla psicanalisi nel senso che non è più possibile intraprendere il percorso dello psicanalista?

Guidi: perché nel ’89 arrivò “Mister Ossicini” che fece la sua Legge, la Legge Ossicini, e quindi, copiando il modello tedesco, decise che per fare lo psicanalista è necessario avere una laurea o in medicina o in psicologia. Per tutte le altre lauree niente da fare. Anch’io ho una laurea in filosofia ad indirizzo psicologico conseguita a Firenze, e come me, di quell’epoca, c’erano tanti colleghi di filosofia, di lettere, addirittura una collega molto brava di economia e commercio. Avevamo tutti quanti, prima del ’89, una formazione analitica, e lavoravamo già da tempo. Avevamo quindi i requisiti giusti e passammo tutti la sanatoria. Dopo questo niente. Adesso è necessario che tu ti iscriva alla facoltà di psicologia o di medicina che vada avanti per anni. Il dibattito si è veramente corroso, il laicismo della psicoanalisi si è veramente azzerato. Per quanto mi riguarda, continuo con la mia idea e anche quest’anno realizzeremo al Centro di Ascolto e Orientamento Psicoanalitico un progetto per un laboratorio di formazione di psicanalisi laica. Un’esperienza formativa che non richiede nessun tipo di diploma o laurea, ma puro desiderio. Chi vuol venire a formarsi, bene, anche se da un punto di vista burocratico non ha alcun valore. Vale comunque molto per sostenere il desiderio personale. Per passare alla psicoanalisi, come ti ho detto, puoi farlo soltanto se consegui la laurea in psicologia o medicina. Poi un quadriennio di psicoterapia, e così via…

Carnesecchi: una vita passata a scuola praticamente…

Guidi: sì, ma è così. Personalmente, sono quarant’anni che passo la vita sui libri, da quando facevo le scuole medie, ma un conto è studiare perché la formazione me la traccio personalmente, altro conto perché vieni obbligato a studiare delle cose assurde. Facciamo un esempio: se ti interessa la psicoanalisi, vieni obbligato a fare psicologia: la psicologia con la psicoanalisi non c’entra proprio nulla. Storicamente, la psicologia è nata nei laboratori tedeschi di Berlino con Wund etc, mediante esperimenti che potevano partire dalla seguente domanda: “Come si fa a misurare l’emozione?”. Ecco, tutto si incentra sulla misura, sulle tassonomie, sulle statistiche, sull’applicazione fisico-matematica, tutte cose che non c’entrano niente con la psicoanalisi. È tutto un altro ramo. Quindi, se tu dici a te stesso: “Voglio fare lo psicanalista, lo voglio fare a tutti i costi”, allora è necessario che tu ti tappi il naso, ti iscriva a psicologia, poi la specializzazione in psicoterapia, e infine ad un quadriennio di scuola di psicanalisi. Ecco, da lì in poi le cose si fanno interessanti, poi inizierai un percorso di analisi personale. Solo così puoi diventare psicoanalista. Certo, in termini economici ci vuole un bel capitale, senza contare i dieci, dodici anni di formazione. Altrimenti c’è un’altra strada, la strada del coraggio, come dire: “Me ne frego!”.

Carnesecchi: Il fatto che, per esempio, fino alle scuole superiori, fino all’esame di maturità nella scuola, ci vieni come, non gettato, ma viene dato per scontato il fatto che sia naturale andarci. Nel senso che da quando hai sei anni a quando ne hai diciotto è normale che tu vada a scuola. E quindi, come è possibile, all’interno del contesto scolastico, instaurare un rapporto diverso con il docente, in linea con ciò che descriveva lei, ovvero un rapporto che si basi sull’interesse e che renda possibile un incontro, per la conseguente formulazione di una domanda? A scuola, alla fine, non chiedi mai, neppure domandi di andarci, quindi vieni assorbito nell’habitus dello studente e non ne esci più. Come è possibile quindi l’ instaurarsi di un rapporto basato sull’incontro? E per estensione, le potrei dire che è così anche dell’università, anche se l’università scegli di farla; però alla fine, è diventata quasi come un’abitudine, alla fine tutti ci vanno dopo le scuole superiori, ed è difficile uscire fuori da questo campo, è difficile non fare lo studente ed essere abbastanza interessato ed avere la forza d’andare incontro a una persona che credi che sappia. È una cosa che destabilizza.

Guidi: bisogna intanto abbattere il sistema scolastico, e diciamo che l’alternativa all’istituzione scolastica è il laboratorio, cioè un laboratorio permanente. Nei laboratori del Centro d’Ascolto, ho assunto l’aforisma di Antonio Machado: “La strada non c’è, la strada si fa andando”, quindi passo per passo ci incamminiamo in una formazione, senza un programma pre-ordinato da imparare. Non è come a scuola che tutto ciò che è preordinato è qualcosa che devi imparare e dopo ti viene risentito, e se non lo sai ti danno un bel cinque. Questo è il sistema scolastico grossomodo. Invece secondo me è tutto alla rovescia: prima ti interrogo e poi ti spiego, cioè prima interrogo chi sei, la tua storia personale; quando poi ti ho interrogato allora ti spiego quello che sei e si parte di lì! Si parte, diciamo, da quel materiale umano, che ho a disposizione che sei tu, in carne ed ossa. Un materiale sul quale si può costruire tanto. Ma, ripeto, si tratta di materiale umano, non di programmi ministeriali preordinati.

Carnesecchi: ma questo vorrebbe dire fare lezione sempre uno-ad-uno?

Guidi: No, si può fare anche e soprattutto in gruppo. Si possono costruire laboratori in cui viene chiesto a ciascun partecipante di dire la propria storia o di scriverla, in base al materiale che è venuto fuori, posso spiegare e, insieme agli alunni, costruire dei percorsi soggettivi.

Il Corso di Counselor ad Orientamento Psicoanalitico che realizziamo qui al Centro, che ora ha avuto un giusto riconoscimento ministeriale, ti permette di lavorare in una direzione psicoanalitica a partire dall’esperienza del laboratorio. Sono venticinque anni che c’è il Centro di Ascolto e Orientamento Psicoanalitico, ed ho sempre impostato il rapporto didattico come se fosse un grande laboratorio. Però, naturalmente, entriamo in una realtà propria del privato. Nella dimensione del pubblico, il Ministero, lo Stato, invece di essere super partes e dire: “Ci sono cento laboratori in Italia; bene! Facciamo sì che producano materiale liberamente, poi, ogni due o tre anni, ci incontriamo per prendere visione di tutto il materiale prodotto”. Una cosa che potrebbe permettere allo Stato di vigilare, in modo da capire che tutto sia corretto ed in legalità, no? Lo Stato invece, con il Miur, con le commissioni, vuol mettere bocca direttamente, con la presunzione di indicare a te la giusta strada da seguire. Per me è anticostituzionale.

Carnesecchi: alla fine di tutto questo, cosa consiglia ad uno studente di filosofia al terzo anno, che non ha ancora formulato nessun tipo di domanda nella sua vita prima di adesso?

Guidi: Tutto quello che ti ho detto, è chiaro, chiedere un consiglio diventa una cosa particolare perché…

Carnesecchi: non so, ad esempio frequentare i laboratori, va bene, ma se i laboratori non ci sono all’interno dell’università che si fa? Cosa si fa con la filosofia?

Guidi: eh, lo so. Anche la filosofia è stata disastrata. Pensa, un tempo il Corso durava quattro anni, ventuno esami, secchi. Ogni esame si cominciava a novembre a studiarlo e si finiva a giugno: occorrevano sei, sette mesi per dare un esame. Ad esempio, ricordo l’esame dato con il professor Landucci, che mi fece commentare le prime pagine de La Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Ricordo che su una pagina e mezzo, mi ci tenne un’ora. Su una pagina e mezzo! Parola per parola. Mi dette ventisette, e alla fine mi disse: “Hegel era più sensibile di lei!”, ed io risposi: “Può darsi!”. E i primi cinque studenti prima di me, li buttò tutti fuori. Prima di entrare a fare l’esame mi dissi: “Andiamo bene!”. Poi insomma … fu un bell’esame, mi piaceva la filosofia.

Ritornando comunque alla mia esperienza con Sergio Finzi, quando lo rincontrai, gli chiesi: “Che devo fare professore?”. Lui mi rispose semplicemente: “Fai bene filosofia, perché la filosofia ti forma alla psicanalisi, dà una formazione personale, ti insegna a ragionare, ti insegna la dialettica, ti introduce alla epistemologia. Quindi feci filosofia, e mi trovai veramente bene. Però erano altri tempi, ed oggi, veramente non c’è più questo discorso, la filosofia è stata ormai catturata e presa.

Carnesecchi: su dieci esami, forse, soltanto in due occasioni mi hanno fatto leggere i testi originali. Per il resto si è trattato di manuali, manuali su manuali, scritti da docenti universitari.

Guidi: esatto. Poi non c’è più questa lettura epistemologica del testo, ed è fondamentale saper leggere un testo. Ti racconto una storia: mi sono presentato alla discussione della tesi di laurea con la media del 109. Preparai la tesi su Jacques Lacan, andai a Parigi e raccolsi un sacco di materiale. Si trattava di una tesi sperimentale su Lacan. Premetto che non ho mai visto Lacan come un filosofo, in netta controtendenza con quanto accade oggi, perché ormai Lacan è assimilato ad un grande filosofo, come l’ultimo grande pensatore post-pensiero debole e così via. Personalmente, sostenevo nella tesi che Lacan utilizza la filosofia come uno strumento didattico, però riportandola all’interno del Campo Psicanalitico, per chiarire i concetti psicoanalitici. Ma Lacan non è un filosofo, non è uno strutturalista. Ha utilizzato lo strutturalismo ma non è uno strutturalista.

È questo ciò che sostengo, che Lacan ha utilizzato la filosofia come uno strumento ma non si è mai identificato con una corrente filosofica perché, fondamentalmente, Lacan è uno psicanalista che ascolta le parole e cura. Puramente freudiano, quindi. Oggi, invece, passa il discorso che Lacan sia appunto uno dei grandi epigoni della filosofia moderna, un perfetto Maître a penser. Questo ti dà l’idea della grande distorsione generale che c’è, la confusione che c’è in giro. Ma perché? Per un semplice motivo: sono saltati tutti i principi etici, e l’etica è in crisi anche nella psicanalisi. Perché è in crisi? Perché c’è un’attrazione smodata per quello che è il potere. Oggi, a tutti piace essere potenti, narcisisticamente potenti, e dire: “Ecco, guarda, questa è la verità io ho un potere”. E a specchiarsi in questa verità, purtroppo, c’è anche la psicoanalisi. C’è quindi un rischio etico per la psicanalisi che è definibile come un quarto rischio. Il rischio etico per la psicoanalisi è proprio di eccedere in senso etico, cioè di non tener più conto dell’etica normativa dell’inconscio, ma di tener conto dell’etica prescrittiva, cioè “l’etica la prescrivo io”; mentre l’etica normativa cos’è? L’etica normativa è attenersi alla norma dell’inconscio. L’inconscio è quello che parla, punto! L’etica prescrittiva invece è anticipare, prescrivere in senso etico delle norme che poi, in qualche modo, vadano a sostituire l’etica.

Carnesecchi: una specie di religione…

Guidi: sì, esatto. Le Scuole di Psicanalisi sono chiuse ecclesiasticamente quindi non ci sono i laboratori di psicanalisi, o per lo meno ve ne sono pochi. Tutte scuole! La scuola A, B, C. E poi, all’interno della Grande Scuola, c’è la divisione tra scuole e scuolette. Siamo già a quattro, cinque scuole di psicanalisi in Italia. Nell’81, dopo la morte di Lacan, sembrava che non vi dovesse essere una scuola-una, ma un sapere psicoanalitico sostenuto da Centri, da realtà particolari. Ma la situazione era come a un bivio. La via della scuola era la seguente: “Mettiamo su una scuola-una, che da Parigi dirige a livello mondiale?”. Dalla scuola parte la consegna: “E’ l’anno dell’immaginario” e tutto il mondo fa il lavoro sull’immaginario. Questa è una via. Oppure, come seconda opzione, si poteva dare vita ad una confederazione di Centri, e ogni Centro lavora su quello che vuole. Poi, ogni una, due, tre volte l’anno i Centri si riuniscono e analizzano i punti conseguiti.

È passata invece la politica della scuola-una, quella Milleriana, là dove, guarda caso, se ti chiedi quale sia il centro della scuola unica di Miller, trovi Parigi Sette, cioè l’Università a Vincennes: laurea in psicanalisi. Cosa vuol dire quindi? Che il Discorso dell’Analista è stato riassorbito dal Discorso dell’Università.

Tornando alla mia discussione della tesi di laurea, finisco per costruire una tesi di quattrocento pagine sul peso dell’hegelismo in Lacan, il concetto di morte e dialettica. Cioè, Lacan va ad ascoltare, in carne ed ossa, il seminario di Kojeve, che ha portato l’hegelismo in Francia, in quei seminari in cui c’era tutta la cultura francese che contava. Lacan era l’unico psicoanalista e psichiatra presente in quella situazione. Nella mia tesi, ho dimostrato che a Lacan interessava proprio un contatto diretto con l’autore, in carne ed ossa, come quando si incontra con Martin Heidegger, per ben due volte. “Perché”, viene da chiedersi. Perché Lacan incontra Heidegger? Perché in analisi, aveva uno dei migliori allievi di Heidegger, un analizzante che durante gli incontri parlava del maestro, di Heidegger. Siccome il desiderio è sempre il desiderio dell’Altro, allora si può concludere che l’oggetto del desiderio dell’allievo di Heiddeger era Heidegger stesso. Per questo motivo Lacan ha voluto incontrare Heidegger, ed è questo andare lungo il campo del desiderio che muove il Discorso Psicanalitico, non le teorie astratte. E’ l’incontro in carne ed ossa con qualcuno, che permette poi di andare oltre. Allora raccontai tutto questo in sede di discussione di tesi di laurea, ma i filosofi fiorentini, storicisti, nell’ascoltare questa tesi, (che feci tutta da me, senza essere seguito, se non da un relatore d’ufficio), mi dissero: “Guardi, questa tesi… così… insomma… non va bene, perché lei tratta la filosofa in un certo modo, lei rischia molto con questa tesi…“. Insomma, per farla breve, tutto durò un’ora e mezzo e penso che si tratti di un caso unico, penso in tutto l’occidente: da 109 mi tolsero sei punti. Mi dettero 103! “Benissimo, grazie, sono contentissimo, arrivederci”. Capisci? Quindi, non vi preoccupate! A me, del voto non interessa, non volevo fare il filosofo, ma quella era la mia posizione e rimane questa ancora oggi. Quindi per dire, queste sono le distorsioni del sistema universitario. Non hanno premiato, il mio coraggio, la mia sperimentazione su Jacques Lacan. No, volevano una tesi bloccata, prevedibile, sempre il solito copione accademico. Feci invece una tesi innovativa al massimo, costruì una specie di mappa, una mappa stradale che posso esemplificare in questo modo: il percorso di Hegel è un percorso autostradale che ci porta molto, molto lontano. Contrariamente, il percorso di Kant è un percorso che ci conduce ad una strada senza uscita. Dimostrai, attraverso le citazioni, che su un versante si poteva andare molto lontano, mentre dall’altro da nessuna parte; questo ovviamente in relazione alle rispettive teorie dei filosofi. Immaginatevi voi una filosofia trattata in questo modo, come una mappa stradale! Ma nella psicoanalisi, Lacan ci trova questo. Ma sono cose innovative, non sono apprezzate purtroppo. Confesso che mi divertì un sacco, e non mi importava del 103, non mi interessava per niente. E’ sempre la solita storia.

Durante le lezioni di italiano, ad esempio, alle scuole superiori, prendevo sempre quattro, perché la professoressa non riusciva a capire quello che dicevo e quello che scrivevo, mi diceva: “Ma che scrivi? Non capisco i tuoi temi!”. Non li capisce? Per forza, ero troppo avanti rispetto a lei.

Insomma, questo è il sistema, e in trent’anni di formazione scolastica, cioè dalle elementari all’università, non ho tratto niente dalla scuola, se non l’incontro, appunto, formidabile, con Sergio Finzi, l’incontro, alle scuole medie, con un professore di italiano, che maneggiava, leggeva durante la ricreazione un libro di Karl Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo. Ero affascinato da questo libro ingiallito della casa editrice Astrolabio. Gli chiedevo: “Professore, cosa legge?”. E lui mi rispondeva: “Leggo questo libro, ma è roba difficile”, e vedevo questa carta gialla, meravigliosa, e ne ero affascinato. Insomma, per farla breve, andai a comprarlo in libreria. Non ci capivo niente, ma non vuol dire niente. Era qualcosa di misterioso, e a me affascinava il mistero. Di mistero in mistero sono arrivato alla psicoanalisi.

Carnesecchi: per quanto mi riguarda, il mio rapporto con la scuola è sempre stato scadente, sono stato bocciato due anni, un gran casino a scuola. Alla fine, tante volte mi sento come non adatto, nel senso di incapace a fare filosofia perché non ho mai fatto fruttare abbastanza i miei studi dal punto di vista scolastico, quindi mi viene da chiedermi: “Perché devo studiare filosofia se ho sempre fatto così schifo a scuola?”.

Guidi: Ti sei mai interrogato perché ti interessa la filosofia? Fattele le domande, domandati, domanda, domanda, domanda!

Carnesecchi: Gli unici libri che ho letto, anche nel tempo in cui non andavo bene a scuola, sono sempre stati libri di filosofia, da sempre. All’inizio erano pochi, poi sempre di più, e non ho mai letto né romanzi né poesie. Ho sempre letto solo filosofia. Il fatto è che, alla fine, ti devi sempre motivare da solo, come dire: “Vabbè, la filosofia mi piace è giusto che la faccia, posso andare avanti”. Ma è difficile!

Guidi: tu sei al terzo anno?

Carnesecchi: Sì…

Guidi: e con chi ti laurei?

Carnesecchi: non lo so, sono talmente lontano dall’idea di fare una tesi che non c’ho nemmeno pensato.

Guidi: c’è qualcosa che ti ha interessato, qualche materia? Qualche autore, qualche libro, qualche professore…

Carnesecchi: all’inizio mi ero interessato a Kant e Hegel, insomma all’idealismo tedesco, e, ad essere sinceri, non me lo ha mai insegnato nessuno. Non ho assistito ad una sola lezione su Kant o Hegel. Me li sono letti per conto mio. Ora, sono come passato allo strutturalismo, Foucault, Deleuze, la cultura francese del 900. Però, non so se è una caratteristica della facoltà di filosofia di Bologna o si tratta di una tendenza generale, trovo che questi autori francesi vengono come saltati a piè pari: si arriva al dopo o ci si ferma al prima.

Guidi: la cultura francese in Italia, come tu sai, non è che venga apprezzata molto. Passi quella tedesca, ma quella francese non è molto ben vista, no?

Carnesecchi: penso che farò una tesi su quello che mi sono letto da solo ma che nessuno mi ha mostrato, piuttosto che su un argomento dei programmi…

Guidi: come si fa a non conoscere Derrida? Derrida è il massimo.., la “disseminazione” di Derrida.., eccola là.., la grammatologia, il primato del significato o della scrittura. Invece Lacan diceva il primato del significante, e della parola…

Carnesecchi: finisci per perderti in un sapere in cui non vieni accompagnato.

Guidi: il pregio dell’università dovrebbe essere quello di dare una guida, no? Una strada… per forza, altrimenti… lasciando margini, diciamo, allo spazio personale. Una guida bisogna che ci sia, altrimenti rischi di perderti.

Guidi: Tu invece fai il primo anno eh?

Pratelli: sì, a Pisa.

Guidi: tu sei nella sua stessa situazione?

Pratelli: ho notato soprattutto che alla facoltà di Filosofia di Pisa dove sono iscritto, la cosa è decisamente peggiore rispetto a quanto mi ha raccontato Andrea. Da noi è tutto un fare Storia della Filosofia, da quella antica fino a quella moderna, cioè ci sono le istituzioni, ci sono tutte queste cose qui, ma nessuno che parli di filosofia contemporanea.

Guidi: a Pisa, un tempo, c’era Remo Bodei, e Giuseppe Panella, che insegna qui al Centro, è stato allievo di Bodei. Da quando Bodei se ne è andato forse le cose sono peggiorate. Tornando difatti al Discorso dell’Università, l’aver ridotto la filosofia da un corso di quattro anni ad uno di tre è un delitto. Tre anni più due è una cosa abominevole, significa spezzare un corso in migliaia di frammenti, si perde l’unità fondamentale. Il concetto di unità non c’è più, che è uno dei concetti epistemologici più importanti.

Intervista realizzata presso il Centro di Ascolto e Orientamento Psicoanalitico di Pistoia.

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