Roberto Carifi – Pietro Martinetti: l’ascesi del pensiero

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Pietro Martinetti è stato un filosofo solitario. lo è stato in primo luogo per scelta, nella convinzione che la filosofia comporti una vocazione assoluta, costituisca una vera e propria ascesi del pensiero. Lo è stato, poi, come conseguenza di scelte radicali dettate da un profondo rigore etico, da quel primato della coscienza che lo condusse nel ’31 al rifiuto di prestare il giuramento fascista. Dimesso dall’Università di Milano, dove insegnava dal 1906 filosofia teoretica, si ritirò in una casa in campagna a Spineto, frazione di Castellamonte, vicino a Pont Canavese dov’era nato il 21 agosto 1872. Vi rimase fino alla morte, avvenuta nel ’43, confortato dalla compagnia dei suoi animali e dei pochi visitatori, discepoli che mai avrebbero dimenticato la sua figura di autentico maestro del pensiero. Potremmo attribuire a Martinetti la stessa definizione che amava dare di Spinoza, definirlo un «mistico della ragione» per la sua concezione della ragione filosofica come continuo superamento della molteplicità, del caos delle rappresentazioni, della dimensione empirica verso una dimensione ulteriore. Martinetti ha sempre pensato, kantianamente, che oltre il mondo fenomenico vi sia una realtà noumenica, intelligibile, un mondo della perfezione a cui è possibile avvicinarsi ogni volta che riusciamo a dare alle nostre azioni l’impronta dell’Assoluto, a «penetrare ogni fatto nella sua più profonda realtà, mettendolo in relazione con il complesso di tutto il reale»[1]. La nostra conoscenza è limitata, ma illimitata è la nostra tensione conoscitiva. Ne deriva una interpretazione di Kant in chiave radicalmente metafisica, per cui il noumeno non è solo ciò che non si può conoscere ma soprattutto ciò a cui si deve tendere. Proponendo una interpretazione essenzialmente metafisica del pensiero kantiano Martinetti sposta l’attenzione dal fenomeno al noumeno e considera l’atto conoscitivo un atto di libertà tramite il quale dare alla conoscenza e all’attività morale la cifra dell’eterno. Il compito della filosofia, secondo il kantiano ma anche il platonico Martinetti, è quello di ricercare con tutte le forze l’Uno liberandosi infinitamente dal mondo illusorio dell’esperienza, realizzando nella filosofia una continua purificazione della ragione, una instancabile ascesa verso la perfezione, verso il parusha, l’autentico Sé dell’induismo che la sua formazione dualista, di matrice orientale non meno che gnostica, lo portava ad opporre senza mediazioni alla realtà dell’imperfezione e del male.

         Nel mondo c’è il male, evidenza che Martinetti deriva da molteplici sollecitazioni, talvolta anche tra loro in contrasto, ma sempre nella convinzione che si tratti di una sorta di deviazione dalla norma, di allontanamento dalla regola, di una realtà degradata e contaminata: «Il mondo empirico, di cui la nostra individualità fa parte, è qualche cosa di metafisicamente irreale e di moralmente anormale, che rivela nelle sue contraddizioni intrinseche la sua irrealtà, nel suo carattere immorale e doloroso la sua anomalia»[2]. Come in Africano Spir, del cui dualismo non esente da intonazioni induiste è in parte debitore, anche in Martinetti vi è la convinzione che operi in ognuno di noi «una coscienza iniziale dell’essere vero e perfetto» che «ci fa apparire la realtà del senso come anormale e problematica e ci sospinge senza posa verso la liberazionedella parte divina dell’essere nostro»[3]. Questa esigenza «assoluta, intransigente esclusiva dell’esperienza» si manifesta nell’attività filosofica come incessante liberazione, spinoziana emendatio, processo di purificazione della ragione e di elevazione della dimensione dello spirito, ascesi e ascesa, movimento etico e conoscitivo di continua affermazione di libertà. La conoscenza come via di liberazionedalle imperfezioni di questo mondo, come distacco dall’errore e dal male di cui è schiava la ratio inferior incapace di farsi fino in fondo spirito, comporta l’idea della filosofia come una forma di religione, di tensione religiosa verso l’Assoluto, naturalmente lontana da tentazioni dogmatiche o istituzionali. La filosofia religiosa di Martinetti ha il suo fondamento nella constatazione che tutti gli esseri «lottano contro l’oscuro principio, artefice di apparenze, che si oppone alla loro unione con dio»[4]. La condizione empirica dell’esistenza finita si accompagnaall’angosciata tensione verso il divino, in una stretta relazione tra pessimismo empirico e ottimismo metafisico che accanto all’ignoranza e all’illusorietà da cui il male scaturisce come non-verità, come assenza della realtà pienamente realizzata nell’Uno, pone la funzione liberatoria della conoscenza, della gnosi «che separa il punto di vista dell’assoluto e dell’eterno (in cui non vi è male ma solo perfezione) da quello del relativo e dell’apparente (in cui il male è reale)»[5]. La ragione sia pratica che teoretica, deve portare alla luce la sostanziale deficienza della realtà empirica, il suo essere imperfezione in quanto manifestazione fenomenica e quindi diminuita della perfezione e della trascendenza. Liberarsi dal male significa in primo luogo riconoscere il carattere fenomenico, di realtà inferioe e imperfetta, elevarsi verso il grado superiore ed assoluto dove «esso si annulla, lasciando trasparire la realtà vera e perfetta. La formale trascendenza di Dio rispetto al mondo, che pure ha in Dio la propria unica sorgente di realtà, solleva l’assoluto ad ogni contaminazione col finito e l’imperfetto, senza togliere a quest’ultimo l’esperienza del negativo e la responsabilità morale per combatterlo»[6].

         Martinetti crede fermamente che una filosofia profondamente etica debba necessariamente possedere una cifra autenticamente religiosa, opponendo al fideismo irrazionalistico e superstizioso la fede filosofica e razionale di un idealismo trascendente di matrice kantiana, spesso in evidente polemica con l’idealismo hegeliano di Croce e di Gentile. In quello che Antonio Banfi ha definito il martinettiano «idealismo razionalistico di trascendenza» il criticismo kantiano è già religione poiché afferma l’esigenza etico-religiosa di superare i limiti, è affermazione del limite e vocazione a oltrepassarlo, vocazione alla trascendenza e alla noumenicità. Poiché «il vero interesse della critica è un interesse religioso»[7], la metafisica kantiana, insieme a un radicale pessimismus ereditato da Schopenhauer, costituisce lo sfondo di un pensiero filosofico che non intende accettare come pienamente reale e realizzata quella forma dell’essere che è il mondo empirico, luogo dell’imperfezione e del male, degli impulsi naturali e della materia, la induista prakriti dell’antico sistema Sankhya su cui Martinetti aveva sostenuto la tesi di laurea. Perciò «l’unica realtà vera è l’attività silenziosa dello spirito che si libera dal mondo», scrive Martinetti in Gesù Cristo e il cristianesimo, dando alla tensione liberatoria della ragione l’intonazione di un fichtiano streben, di uno sforzo che non libera una volta per tutte e tuttavia libera di nuovo in ogni momento, consente di vivere come se in ogni momento potessimo realizzare l’eterno nel mondo del limite e del divenire. Dare alla nostra esistenza l’impronta dell’eternità è già una parziale liberazione, e questo è possibile se si mantiene un convinto pessimismo riguardo alla dimensione empirica e naturale insieme alla speranza di potere conquistare il mondo vero dell’Unità e della perfezione. Il pessimismo partinettiano fonda lo slancio verso l’eterno, nella convinzione che solo chi comprende l’inadeguatezza del mondo abitato dal male e dall’imperfezione ha la vocazione a trascenderlo conferendo a ogni atto della propria vita la dignità che la rende immortale («ciò che è degno di vivere vivrà»), il martinettiano misticismo della ragione concepisce la filosofia come un trascendere all’infinito la realtà anomala del male, come fede razionale capace di accendere un lampo di eternità nel caos del molteplice e delle rappresentazioni. La vera razionalità «è la coscienza filosofica della norma e della sua opposizione al mondo empirico»[8], visione ultima in cui confluisce tutto il nostro sapere, norma dello spirito e aspirazione a una vita ideale. Quando Martinetti afferma che questo mondo del male, abitato da «esseri, persone, che sono l’incarnazione del male», è un mondo anomalo, intende dire che lo è rispetto a quella norma e a quella realtà pienamente realizzate che è il mondo intelligibile e trascendente. Questo mondo è incompleto, deve essere continuamente colmato dall’attitudine filosofica che sa opporre all’anima sempre uguale a tutte le circostanze , che invita a identificare se stessi con un ordine di principi immutabili, che nel suo sguardo contemplativo vede le cose nell’orizzonte eterno e intelligibile. Martinetti attuò nella solitudine filosofica una sincera vocazione all’ascesi metafisica e religiosa, sempre tormentato dalla visione di un mondo che quasi sempre gli apparve come male assoluto, qualche volta come una sorta di bene impuro, altre volte come «l’illusione dolorosa della vita sperata».

Note:

[1] P. Martinetti, Kant, Milano, Feltrinelli 1968, p.147.

[2] P.Martinetti, Ragione e fede, Torino, Einaudi 1942, p.345.

[3] Ivi, p.347.

[4] P.Martinetti, Introduzione alla Metafisica, in Scritti di Metafisica e di filosofia della religione, Milano, Edizioni di Comunità 1976, p.413.

[5] A. Vigorelli, Spinoza mistico della ragione, introduzione a P. Martinetti, La religione di Spinoza, Milano, Ghibli 2002, p.29.

[6] Ivi, p.30.

[7] P.Martinetti, Kant, cit., p.181.

[8] P.Martinetti, Ragione e fede, cit., p.351.

 

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