Prefazione all’Atto Pedagogico

 In Pedagogia psicoanalitica
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Di Alessandro Guidi

Quando mi è stato proposto da Pierluigi Sassetti di provare a pensare all’esistenza di un “Discorso pedagogico” che avesse un legame con il Campo analitico sono rimasto inizialmente molto dubbioso sulla possibilità della sua realizzazione. Un Discorso che abbia una implicazione psicoanalitica necessita infatti di una sua tenuta logica e di una sua autonomia, caratteristiche proprie dei cinque Discorsi formalizzati da Lacan.

Solo da una posizione di dipendenza da uno dei cinque Discorsi poteva essere pensato un libro che riguardasse i rapporti tra psicoanalisi e pedagogia all’interno del Campo psicoanalitico; questo Campo è in grado di accogliere un Discorso sull’educazione in generale e soddisfare così il crescente interesse che tale argomento sta avendo presso insegnanti e educatori che frequentano la psicoanalisi a titolo formativo o mossi da una curiosità per il sapere psicoanalitico. Negli anni 60’ Maud Mannoni, psicoanalista ad orientamento lacaniano, ha interrogato i rapporti tra psicoanalisi e pedagogia, ma lo ha fatto comunque a partire dalla pratica dello psicoanalista che collabora con l’educatore nella cura della malattia mentale all’interno di strutture territoriali. Anche se da questo punto di vista parziale, che non tocca cioè la questione complessiva del rapporto tra i due campi diversi in relazione alla affermazione fatta da Freud e ripresa da Lacan,

«Avevo sì fatto mio sin dai primi tempi il vecchio adagio delle tre professioni impossibili (l’educare, il curare e il governare), ma ero comunque occupato fino al collo con la seconda di esse. non per questo tuttavia disconosco ai miei amici pedagogisti il diritto di rivendicare al loro lavoro un alto valore sociale»[1].

vorrei mettere in evidenza la posizione di fondo della Mannoni sull’argomento, posizione che condivido pienamente”:

«Occorre indubbiamente distinguere il turbamento che l’educatore può provare davanti all’idea che si fa della psicoanalisi, così come ha potuto trovarla in un libro, e l’effetto che in lui può produrre l’accesso al proprio inconscio»[2].

In sostanza questo libro vuole interrogare e sottolineare la portata etica degli effetti dell’inconscio dell’educatore che ha deciso di inscriversi nel Campo analitico. Per l’educatore questa inscrizione, e il conseguente aver a che fare con l’inconscio, rappresenta inizialmente qualcosa di pauroso e orribile (fantasma) tanto è vero che la dimensione del sapere, che a poco a poco si forma nel cilindro del suo immaginario per poi uscirne, gli appare mostruoso avendo a che fare con una sorta di animale ibrido, figlio di una contaminazione genetica, un mostro che non riesce a proporsi in modo chiaro. D’altronde, che cosa può produrre una pratica come la politica se, al contrario di Freud, viene considerata dagli stessi addetti ai lavori, come la pratica della gestione possibile delle cose reali ovvero come il modo di governare un popolo in quanto risultato di una prassi riuscita, di un qualcosa che riesce e che funzioni? E che cosa produce, invece, una pratica psicoanalitica condotta dagli stessi analisti e indirizzata verso la guarigione del sintomo del paziente, cura che si sviluppa attraverso il desiderio dell’analista che, in questo caso, è quello di correggere ciò che non gli piace e non va nel paziente?

         Infine, che cosa procura un’educazione riuscita che traduce in realtà un programma fondato sulla sperimentazione e dove l’altro fa da cavia? Mostri, dunque, nati da una violenza fatta all’impossibile del reale del soggetto e alla sua struttura, violenza che consiste nella possibilità di tradursi nella pratica di desideri distorti senza che essi tengano di conto della dimensione etica, che è la dimensione che interroga il limite del soggetto umano, oltre il quale ci sono solo disastri. È per questo che Freud parla di mestieri impossibili, che hanno a che fare con l’impossibile che non si realizza ma che si inscrive nella struttura della prassi entro cui il soggetto umano si muove. Freud, però, non aveva fatto i conti con la tecnica moderna che traduce l’impossibile del reale in un reale possibile e senza limiti attraverso l’immaginario infinito. Lacan, tra le altre cose, già alla fine degli anni 50’, ha parlato del compito della psicoanalisi come di quel sapere che deve contrastare il reale della tecnica e dei gadget, i quali proiettano il soggetto umano verso un’identità infinita e pericolosa del tutto immaginaria. Queste considerazioni mi portarono a poco a poco a convincermi della natura del legame che esiste tra educazione e psicoanalisi a partire appunto dalla categoria dell’“impossibile” che è una delle caratteristiche del reale in quanto registro del soggetto dell’inconscio.

Chiarita la natura di questo legame è nata la convinzione che la pedagogia, a differenza della psicoanalisi, non ha un suo pensiero, nonostante gli sforzi di fondarne uno della attuale ed impropria “scienza dell’educazione”. Quest’ultima ha bisogno, infatti, di un pensiero di appoggio e se questo pensiero di appoggio è quello psicoanalitico, quello che d’altronde Sassetti come pedagogista ha scelto da tempo, allora l’operazione non potrà che essere quella di un incontro che parte da una inclusione del campo prassico pedagogico in quello prassico psicoanalitico e di conseguenza nella teoria psicoanalitica ormai consolidata dalla scoperta di Freud. Da questa prospettiva si è concretizzata la costruzione di un Discorso pedagogico che ha una sua logica a partire, però, dalla inclusione nel Discorso psicoanalitico: in questo modo ha preso forma a poco a poco un Discorso vero e proprio, quello che possiamo chiamare dell’atto pedagogico implicato.

Tale atto è sempre pratico e particolare; inscriversi nel campo psicoanalitico infatti significa estrarre da questa inclusione i presupposti teorici che riguardano l’iscrizione del soggetto che abita l’operatore all’interno della logica dell’incontro con l’altro, in questo caso con la logica dell’analista, logica che fa parte della relazione con il pedagogo o con l’educatore. Questo libro è anche il risultato di un incontro specifico. È un’interrogazione sulla logica dell’incontro attraverso la griglia teorico-pratica che la psicoanalisi possiede; tenendo presente che, alla base di un incontro inclusivo, c’è sempre del sapere che si trasmette e intorno all’incontro c’è un’elaborazione fondata sul fascino del mistero della verità particolare del soggetto. Tale mistero va inteso come un velo: 1) che è la funzione compresa tra l’estetica e l’epistemologia; 2) che è la funzione che muove nel soggetto il desiderio di agire e di sapere a partire dalla domanda d’amore rivolta all’analista; 3) che è la funzione che fa da motore al soggetto nella sua relazione specifica con quel sapere che muove dal suo inconscio.

E allora ci possiamo chiedere: che cosa passa al di là del velo? Che cosa passa del sapere dell’inconscio nell’incontro dell’uno con l’altro?

Note

[1] S. Freud, Prefazione a Gioventù traviata, di August Aichorn, in Opere Vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 989, p. 8.

[2] M. Mannoni, Il bambino la sua malattia e gli altri, Franco Angeli, Milano 1968, p. 188.

* * * 

Prefazione presente in L’atto pedagogico. Una lettura psicoanalitica della trasmissione del sapere, di Alessandro Guidi e Pierluigi Sassetti, Edizioni ETS, Pisa 2008, pp. 11-14.

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