Presentazione libro Franco Cerri – Umbria Jazz

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 Con la partecipazione di Enzo Capua.

 

Enzo Capua: Anzitutto benvenuti a tutti quanti, mi fa molto, molto piacere vedere questa sala così piena. Di solito non è così quando facciamo le presentazioni, ma oggi è particolarmente affollata e questo significa tanto, significa che tu sei un personaggio fondamentale per la storia del jazz italiano e avere un tuo libro qui è un evento è giusto che ci siamo così tante persone. Quindi, Franco Cerri, un applauso, grazie! L’altro autore del libro, Pierluigi Sassetti che è coautore assieme a Franco di questo libro di ricordi, memorie, storie di vita vissuta e il titolo è straordinario. Sembra banale, semplice ma è molto efficace: Sarò Franco.

Franco Cerri: Premetto, sono il primo ad essere messo sul libro come autore perché il mio cognome inizia con la “C”.

Capua: Ah, solo per quello, ho capito.

Cerri: In realtà, l’inventore di questa cosa è la “S” di Pierluigi Sassetti. È veramente bello e gradevole quello che abbiamo fatto assieme. Ci siamo visti a Milano, credo sei o sette volte, e Pierluigi stava sempre a registrare, ha registrato tutto, ed è così che è nato questo libro.

Capua: Prima di iniziare a parlare del taglio del libro, vorrei sapere a chi è venuta l’idea di raccogliere questi tuoi ricordi, come è nata la cosa?

Cerri: Direi a Pierluigi.

Capua: Vuoi raccontare come?

Pierluigi Sassetti: Volevo fare una precisazione. Questa cosa del nome sul libro è vera, nel senso che solitamente, si mette in copertina il nome del personaggio più famoso, ed io ricordo sempre una telefonata di Franco in cui mi disse: “Guarda, che il tuo nome deve andare prima del mio”. Un po’ spiazzato gli risposi: “Guarda Franco, non mi sembra assolutamente il caso, perché io sono “Mr. Nessuno”, mentre tu sei “Franco Cerri”. Ma Franco insisteva dicendomi: «Non ti do più del “Tu” se non cambiamo il nome. Poi, alla fine abbiamo trovato questa formula “Franco Cerri con Sassetti Pierluigi”. Il libro è nato dalla mia necessità di capire come si suona il jazz, perché sono un insegnante di chitarra, mi occupo di formazione, soprattutto di quella in età adolescenziale, e in tutta onestà posso dirvi che, nonostante tutti i miei studi e tutta la mia esperienza, ad un certo punto della mia vita, di come si suona la chitarra, sentivo di non saperne un gran che. Quindi un giorno decisi di chiedere a questi illustri signori come si suona la chitarra, come si sta sul palco, come si pensa la musica, come si legge il jazz, e ho scoperto così Franco Cerri. Franco Cerri mi ha mostrato una via che assolutamente non avrei mai pensato, una via della semplicità di essere musicisti, creatori e autori di una vita che si scandisce mediante il linguaggio musicale. Una via della musica slegata dallo studio, dalla performance, dalla bravura e dal tecnicismo. Una via che possiamo definire poetica, semplice, di un semplice che è di una complessità assoluta, perché secondo me, suonare come Franco Cerri è una cosa mirabile.

Capua: Verissimo!

Cerri: Sei troppo buono…

Sassetti: Non è vero …

Capua: Franco, senti, vorrei iniziare con una specie di aneddoto. Tu sei una persona che, dal libro come nella vita di tutti i giorni e anche come musicista, si evince che sei un vero gentiluomo, una persona che ha stile, classe, e anche un’ironia che ci aiuta a vivere la vita quotidiana. Ti accomunano queste qualità con un altro personaggio importante che era molto amico mio e che tu hai conosciuto benissimo, di cui ora parlerò. Tu sai che abito a New York, che abito lì lavorando per Umbria Jazz e per Musica Jazz. Questo signore sono andato ad intervistarlo qualche anno fa e siamo diventati amici. Anche lui, come te, è un vero Gentleman, una persona di classe. Oggi non c’è più, si chiamava Jim Hall. Ora, Jim Hall è stato uno dei grandissimi chitarristi della storia del jazz, e quando io sono stato a trovarlo, parlando dell’Italia, del jazz, ha fatto un solo nome, il tuo.

Cerri: È una cosa da magone ….

Capua: Jim era come te, una delle persone più umili che abbia mai incontrato nella mia vita. Nell’intervista ha preferito parlare più degli altri musicisti che di se stesso. Una cosa incredibile per uno che fa questo mestiere. Di solito, come sai, gli artisti e i musicisti cercano di essere un po’ autoreferenti. Lui no invece. Parlava di Django Reinhardt, dei suoi eroi, dei grandi. Lui che è stato una colonna della storia del jazz, e anche tu, condividete questa caratteristica e lo si vede appunto in questo libro, è leggibile tutto ciò. L’idea di farlo quasi come un breviario, chiamiamolo così, con dei capitoletti che si leggono uno dopo l’altro, una cosa che si legge facilmente, ed è molto piacevole saltare da una parte all’altra. Questa idea l’hai avuta tu o l’ha avuta Pierluigi?

Cerri: Direi che Pierluigi ha avuto questa idea. Lui ha messo insieme tutto quello che gli ho raccontato, i miei racconti, tutto quello che più o meno ho vissuto. Ho iniziato nel 1945, nel 1945 con Gorni Kramer. È stato un caso.

Capua: Vorrei che tu ci parlassi un po’ di Gorni perché è oltremodo dimenticato.

Cerri: Eh sì…

Capua: Però, dal mio punto di vista è stato un genio assoluto.

Cerri: Alla fine della guerra si ballava nei cortili ed io suonavo con un gruppo. Ad un certo punto il capo orchestra se ne esce dicendoci: “Ah, mi dimenticavo, oggi Gorni Kramer viene qui!” e noi ci siamo messi a ridere: “Figuriamoci se Kramer viene qui da noi!”. E invece, dopo un po’ è arrivato Kramer. Ad un certo punto ci chiese con la sua erre moscia: “Chi di voi conosce brani americani?”. E tutti iniziarono a guardare me. Kramer mi si è avvicinato ed era una sensazione da svenire. “Tu cosa sai?”, mi chiese. Gli dissi cinque o sei titoli e lui mi invitò a sedermi accanto a lui, e già questo fatto mi intimoriva e incominciavo a pentirmi di avergli detto quei cinque titoli. Ma poi abbiamo fatto ballare il pubblico per almeno un’ora e mezzo. Alla fine si è alzato, mi ha dato qualche pacca sulla spalla e mi ha detto: “Bravo!”. E se ne è andato. Tornato a casa ho dovuto svegliare i miei genitori: “Ho suonato con Kramer!!!”.

Capua: Qui nel libro tu scrivi: “Porca miseria, Kramer si muoveva con swing! Eccome!”.

Cerri: Certo.

Capua: Allora, diciamo una cosa, lo swing non è solo un modo suonare, è uno stile di vita?

Cerri: Sì, assolutamente. Io ho questo vizio. Il tempo, le smorfie, il muovere le spalle, tutti noi quando raccontiamo qualcosa ad un amico, facciamo dei movimenti con il corpo. C’è chi si muove swingando …

Capua: Quindi, l’approccio alla musica e allo swing non è solo un modo di suonare, ma anche un modo di vivere?

Cerri: Certo.

Capua: Puoi definire in un certo modo la tua vita in swing?

Cerri: Ma sì, direi, perché mai avrei immaginato di fare questo mestiere.

Capua: Perché?

Cerri: Perché nella mia famiglia c’era qualcosa di tranquillo, direi così. Mio padre faceva l’impiegato, ed era un mutilato di guerra, mentre mia madre era casalinga. La mia era una famiglia povera ed il primo mestiere che ho fatto è stato il muratore. Poi però scoprii che alla Montecatini cercavano ascensoristi, e ho fatto l’ascensorista per poi passare impiegato. Ma a casa nostra, al piano superiore, c’era un signore della milizia, era un fascista, e suonava la chitarra e cantava gli stornelli. Ed io non mi sono innamorato tanto di quello che cantava, ma del suono dello strumento e quindi iniziai a chiedere ai miei genitori di poter avere uno strumento, la chitarra.

Capua: E i tuoi genitori come l’hanno presa la cosa?

Cerri: Mah, mi dicevano: “Dopo un po’ la pianti lì e non la suoni più”. Ma io ho insistito e un po’ di tempo dopo, mio padre, una sera tornò a casa con una chitarra, e mi ha detto: “Questa è la chitarra, però non c’è una lira per un maestro. Vedi tu”. “E adesso?”, mi chiedevo. Non c’erano metodi, non c’era niente, ed io non sapevo neanche il nome delle corde dello strumento. E così incontrai un musicista molto, molto bravo, Giampiero Boneschi, un pianista. Eravamo bambini, e lui mi disse: “Io sto studiando pianoforte”. “Ah, che bello”, gli risposi, “a me invece hanno regalato una chitarra, ma non so niente”. E lui mi disse: “Vieni su da me”. E la prima cosa che fece, e fu molto intelligente, mi disse: “Suona la corda più grossa”, ed io “don, don, don, don”. E lui si mise a ricercare quel suono sulla testiera del pianoforte: “E’ un mi”. E così tutte le altre corde, la, re, sol, si, mi. Ed io andavo su e giù sulla tastiera alla ricerca di quanti do, di quanti mi riuscivo a trovare. E allora, piano piano, partendo da questo punto sono arrivato a fare il musicista.

Capua: Ma senti, è stato Boneschi a portarti verso il jazz?

Cerri: Lui aveva dei dischi e da lui ho sentito per la prima volta Ellington, Armstrong.

Capua: Quindi diciamo che le due cose sono coincidenti: tu hai iniziato a suonare la chitarra suonando jazz, in pratica?

Cerri: Sì, sì, …

Capua: Quindi una cosa per quei tempi abbastanza inusuale.

Cerri: Certo, e Kramer reclutava tutti quelli che suonavano del jazz.

Capua: Ma Kramer cambiava anche i titoli dei brani americani. Metteva un titolo italiano su un arrangiamento di un brano americano, vero?

Cerri: Certamente.

Capua: Sai, ho fatto ascoltare questi brani a una conferenza alla Columbia University a New York, perché mi hanno chiamato per una conferenza sulla storia del jazz italiano, ed ho fatto ascoltare Kramer. Chi ascoltava era incredulo: “Ma da dove viene fuori questo qui?”. Ed io ho spiegato che in Italia avevamo avuto una cosa che si chiamava “fascismo”, e che purtroppo impediva di suonare i brani americani, e questo signore, Kramer era costretto a cambiare i titoli dei brani.

Cerri: Mi ricordo di essere stato in più teatri, quando suonava Kramer con la sua orchestra, c’era anche Natalino Otto, e suonavano delle cose vicine al jazz, ma non proprio jazz. E in prima fila c’erano dei fascisti che hanno incominciato ad urlare: “Basta! Ci sono cose più importanti da suonare! Sono saliti sul palco urlando ed hanno dato un paio di sberle a Natalino Otto. Un silenzio nel teatro, irreale. È stato un periodo molto difficile.

Capua: C’erano poi le leggi razziali. Mi pare che Ciano fece un editto in cui era vietato eseguire musica di natura “negroide”, così scrivevano, ed era vietato addirittura cantare in inglese.

Cerri: È vero…

Capua: Quindi tu sei stato uno dei pionieri che è riuscito in qualche maniera a venir fuori da quel periodo e a portare il linguaggio jazzistico in Italia, che a quel tempo era ristretto a pochi adepti che di nascosto cercavano dischi jazz, di quella musica che era vietata, no?

Cerri: Sì, era vietata, ma poi, nel dopoguerra sono stato più di venti anni a suonare con Kramer e con il Quartetto Cetra, che era per me una specie di seconda famiglia. E c’era proprio il desiderio di non copiare i brani americani. Ecco, dico ai miei allievi: “Mai copiare niente!”, tuttalpiù ispirarsi a un qualcosa che ci tocca, e solo così possiamo avere un pensiero personale. Comunque a forza di incontri ho suonato con Oscar Peterson, Ray Brown, Jim Hall, Barney Kessel e il primo è stato Django Reinhardt, poi Stephane Grappellì.

Capua: Ci sono delle registrazioni con te e Django?

Cerri: No, non ne abbiamo avuto il tempo …

Capua: Veramente?

Cerri: Avevamo due mesi di contratto ed è successo che dopo quindici giorni ci hanno mandati via perché c’era qualcuno che senza dire “Per favore”, passava davanti al gruppo che suonava e con una certa maleducazione, piuttosto visibile, diceva a Django: “La vie en rose”, come dire: “Suona questo!”. Questa cosa dette molto, ma molto fastidio a Django, al punto che facemmo La vie en rose, ma nello stile di Django, molto veloce, non certamente nella versione lenta. Allora accadeva che la coppia ripassava sotto il palco e ci chiedeva di nuovo La vie en rose, e noi: “Ma l’abbiamo appena suonata!”. Così, dopo un po’ ci hanno mandati via. Poi Django è andato a Roma.

Capua: Sì, mi riferivo a quello, alle registrazioni fatte a Roma.

Cerri: Ma io non c’ero, perché in quel periodo suonavo con Kramer alla Rai.

Capua: Senti, tornando al tuo bellissimo libro, c’è una cosa, tra la varie cose che mi hanno colpito, un capitoletto su Platone, che adesso vorrei leggere, sono quattro righe: «Ai miei concerti leggo spesso un aforisma di Platone: “La musica è una legge morale. Essa dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose”. Io la trovo una cosa meravigliosa. Poi aggiungo: Peccato che io e Platone ci siamo persi di vista». Allora, siccome personalmente, Platone, per cose mie, lo conosco piuttosto bene, qui alla libreria ho trovato una copia de La Repubblica di Platone, e sono andato a cercare un’altra frase di Platone sulla musica che ti volevo leggere e vorrei un commento franco su quello che tu hai messo sul libro e questo che adesso ti leggo:

«Chi dunque, al suono del flauto, si lascia soggiogare spiritualmente dalla musica e permette che dalle orecchie, come da un imbuto, penetrino in lui quelle armonie che consideravamo dolci, molli e lamentose; chi passa la vita intera a canticchiare e ad assaporare una melodia, dapprima, se è di carattere ardente, si ammollisce come un pezzo di ferro, e se era inutile diviene utile a qualcosa. Ma chi non smette di dedicarvisi e anzi se ne lascia incantare, alla fine si consuma e si liquefà fino ad esaurire tutta la sua energia e a tagliare, per così dire, i nervi dell’animo e a diventare un “guerriero senza forza”»[3].

Qui, secondo me, “rammollito” non è proprio la traduzione perfetta del termine. Questa è un’altra cosa molto bella di Platone, però, vorrei sapere da te: la musica, cosa provoca dentro l’anima, cosa almeno ha provocato dentro il tuo animo?

Cerri: Sì, beh, penso, come dicevo prima, a ognuno può capitare una cosa pensata e vissuta in modo diverso. La musica è diventata e sta diventando ancora di più la mia medicina. Se fai un mestiere che ami, ad un certo punto ti sostiene e ad un’età come la mia non è poco …

Capua: Possiamo dire quanti anni hai?

Cerri: Ottantotto …

Capua: Complimenti …

Cerri: Grazie, anzi, ottantotto e mezzo, e questo “mezzo” mi dà non poco fastidio …

Capua: Quando ne compi ottantanove?

Cerri: Il 29 gennaio. Ma quello che tu hai detto adesso fa parte di un racconto che io ho fatto a Pierluigi e che poi lui ha scritto in una maniera molto bella, perché devi sapere, che ho solo la terza media, e non è che …

Capua: Insomma, ci sono delle citazioni molto belle in questo libro, e non mi sembrano poi tanto da terza media. Hai studiato fino alla terza media, ma poi ti sei regalato esperienze …

Cerri: Nella vita si imparano cose, si legge, si fanno incontri … e mi ritengo un fortunato se sono ancora qui a raccontarle e spero di poterle raccontare ancora, un pò almeno.

Capua: Ti volevo leggere una piccola cosa tratta ancora dal tuo libro, un capitolo che si intitola “La paura”. Inizia così: «Se fai una cosa con la paura di sbagliare allora non sei a posto». Mi sembra una cosa molto bella.

Cerri: Ricordati che mi riferisco ancora ad oggi, ad adesso.

Capua: Quindi questo sentimento ha guidato la tua vita? E guida anche la tua musica?

Cerri: Tutto è nato da un’insicurezza. Non c’è stato il maestro che mi diceva: “Guarda, si fa così e così…”. No, e questo vuol dire fare tutto da sè. Mi sono inventato tutto. L’importante è uscirne.

Capua: Non avere paura di sbagliare

Cerri: Tutt’oggi è la stessa cosa. Quando incomincio a suonare … mi tranquillizzo verso il secondo pezzo.

Capua: Tutto questo lo possiamo legare all’improvvisazione?

Cerri: Sì, certamente.

Capua: Perché quando tu dici nel libro: «Sono anni che vivo di improvvisazione, sia nella musica che fuori. Alle volte mi capita di improvvisare anche la mia stessa firma. Non ne faccio mai una uguale all’altra». Questa è una cosa molto bella.

Cerri: Ma non credo di essere il solo. È difficile secondo me, fare sempre la stessa firma.

Capua: Ti voglio fare una domanda un po’ provocatoria a questo proposito: nel linguaggio corrente si dice che uno improvvisa quando non è tanto capace di fare le cose, ed invece improvvisare è una cosa seria.

Cerri: Certamente.

Capua: Allora vogliamo dare nobiltà a questo vocabolo il che vuol dire che improvvisare nella musica ma anche nella vita è proprio una lezione di vita, un vero e proprio modo di procedere?

Cerri: È un’apertura alla crescita. Più vai avanti e più incontri persone che suonano un discorso differente rispetto al nostro e a tanti altri. Qualcosa poi si ferma nel nostro cervello e ci fa ragionare, anche attraverso i sogni. E nella vita di tutti i giorni, invece di guardare la gente che sbadiglia, tu ti metti a ragionare su quanto ti ha colpito, un solo, una frase e così via. Poi vai a casa, prendi la chitarra e la suoni subito, perché l’hai pensata, avendola fatta a mente sulla tastiera. Mi sono sempre fatto un sacco di domande su come si suona ed è così che, per certi aspetti, ho dato un senso, improvvisando soluzioni. Quando suono poi, mi do del “cretino”, perché alle volte suono cose che non avevo pensato di fare e, improvvisando, ho come preso altre strade e allora cerco di ritrovare la strada e questo fa parte dell’improvvisazione. L’improvvisazione è un grande punto di domanda. Mi capita alla fine di un solo, di non essere per niente contento di quello che ho suonato, se poi, per caso risento quella cosa una settimana o un mese dopo, posso anche arrivare a dirmi che in fondo non era così male. È meglio sempre lasciar passare del tempo.

Capua: Volevo leggere altri due o tre frammenti dal libro, che sono un po’ melanconici, e vorrei che tu li commentassi:

«Nei momenti di crisi, nei momenti brutti, la musica è una delle prime cose ad essere messa da parte. Ad un certo punto non ci sono più concerti, non c’è più musica. Accade sempre un poco alla volta, ma in modo progressivo, per cui non ce ne accorgiamo».

E questo è il primo. L’altro è sulla pagina accanto:

«C’è in me un certo dispiacere, perché pensavo che il jazz, qui in Italia, potesse godere di un diverso tipo di divulgazione. Non parlo dei contributi dello Stato, senza i quali è difficile aprire delle scuole; no, mi sto riferendo a qualcosa di molto più semplice. Il novanta per cento del denaro investito nel jazz va agli artisti stranieri. Più di tremila musicisti italiani si contendono quel misero dieci per cento che rimane per portare avanti qualcosa che a volte diventa difficile definire professione».

Credi veramente che nei momenti di crisi, la musica sia una delle prime cose ad essere messa da parte e pensi ancora che il jazz in Italia sia messo da parte e che i soldi vadano per la maggior parte agli stranieri?

Cerri: C’è una cosa da dire prima, ovvero che in Italia non è mai esistita l’educazione musicale nelle scuole. Pensate ai grandi compositori che ci sono stati in Italia, i musicisti che nei secoli hanno fatto dell’Italia una nazione di grandi musicisti. Di tutto questo, nelle scuole non se ne parla. Come fai a crescere?

Capua: Ma non credi, Franco, che ci sia una grandissima esplosione del jazz qui in Italia?

Cerri: Un miglioramento?

Capua: Un miglioramento, un avvicinamento del pubblico, anche di musicisti, perché c’è un grande fiorire di musicisti.

Cerri: Io ho una scuola frequentata da ragazzi che studiano seriamente e che saranno sicuramente degli ottimi professionisti. Però, la paura è che loro non lavoreranno mai, ed è soprattutto un problema politico. Ci sono dei limiti oltre i quali è difficile andare e sono i limiti imposti dalla politica. La storia è questa insomma, la conosciamo tutti…

Capua: Una domanda a te, Pierluigi, cosa ti ha lasciato, dentro il lavoro svolto con Franco nel creare il libro, quali le emozioni che hai vissuto, che ti hanno fatto crescere?

Sassetti: L’esperienza fatta con Franco è stata unica, per il semplice fatto che non pensavo che potesse esistere un pensiero come il suo. Una volta che ho incontrato il modo di pensare la musica e la vita di Franco, inevitabilmente me ne sono innamorato, e per certi aspetti questo innamoramento mi ha condotto con naturalezza a rivedere il mio percorso professionale e la mia modalità di realizzarlo. Il modo di approcciarmi alla musica, agli allievi, al pensiero musicale ha come preso la via di una semplificazione che altro non è che una essenzializzazione del linguaggio musicale, una linearità che mi permette ancor di più di mantenermi vicino al mondo di chi desidera imparare la musica piuttosto che al mondo stesso della musica. Facciamo un esempio: oggi vanno molto di moda le persone iper-preparate. Ecco, dal lato opposto trovo Franco Cerri, ed io, personalmente, preferisco questa via, perché la vedo più umana, più vicina al concetto di limite, meno artificiosa. Trovo questa via molto più umile e per fare questo tipo di lavoro con la musica (che poi un lavoro vero e proprio non è), è necessario avere una grande umiltà di base, per crescere piano, per gradi, senza troppe “fanfare”. Con Franco, non ho mai fatto un solo minuto di “anticamera”, come si dice. Il nostro rapporto è sempre stato quello che è adesso: “Tu ti chiami Pierluigi, io mi chiamo Franco e così ci divertiamo assieme”, ed è così che è nato questo libro, senza particolari strategie. Ci siamo divertiti a costruirlo, a pensarlo e a farlo assieme.

Capua: In quanto tempo è stato scritto il libro?

Sassetti: Il libro è venuto fuori in un mese, e non è niente di più che la trascrizione fedele delle interviste realizzate assieme … un libro che poi, per dirla tutta, Franco in principio non voleva pubblicare.

Capua: Non lo volevi pubblicare? Com’è la storia?

Cerri: Mah, mi sembrava …

Capua: Troppo?

Cerri: Sì troppo.

Capua: Senti, Franco, un’ultima cosa, poi magari se c’è qualcuno che vuol fare delle domande, certamente le potrà fare. Sappiamo tutti dei momenti terribili che devi aver vissuto nella vita ed è inutile qui ricordarli, ma vorrei sapere da te, se lo vuoi dire, quali sono stati i tuoi momenti più belli, quelli più felici, sia della tua carriera di musicista che nella vita.

Cerri: Io ho sempre ammirato i “grandi”, per esempio Jim Hall, Django, Barney Kessel. Ho sempre cercato “l’uomo”, per prima cosa. Se poi mi accorgevo che l’uomo era un po’ un “bullo”, come dico io, con la puzza sotto il naso o cose del genere, lo mettevo da parte. Perché non avrei mai potuto parlare con una persona così. Quindi per me, l’uomo importante è quello con i piedi per terra, che assume su di sé gli obblighi della vita. Allora quando c’è questo nella persona che mi sta di fronte, mi permette di iniziare a “parlare”: “Cominciamo a parlare”. A parlare di tutto, dal jazz alle modalità in cui uno vive la propria vita in famiglia. Viene fuori così un personaggio che magari ti è vicino.

Capua: L’artista dovrebbe sentire comunque la responsabilità, non solo di quello che fa nella sua arte, ma in quello che rappresenta come essere umano per agli altri. Questo molti se lo dimenticano.

Cerri: Non improvvisano più.

Capua: Non improvvisano più, certo …

Cerri: Una cosa che succede quando suoni, ad esempio vorrei fare un accordo e invece ne viene fuori un altro, ed è lì che mi do del “cretino”. Se si chiama improvvisazione, ci sarà una ragione? Ad esempio, Stephane Grappellì, che oltretutto è stato uno straordinario pianista, spaventoso, però, con il violino che cosa faceva? Si era imparato a memoria i suoi soli, quelli fatti nei suoi dischi e che cosa ci diceva? “Io non voglio più improvvisare, faccio le cose che ho fatto nei dischi”. E faceva sempre lo stesso assolo nei vari pezzi. È una cosa che mi ha fatto un po’ strano, come si dice, per uno che emanava musica da tutte le parti, che faceva musica anche con i bottoni.

Capua: Beh, certamente. Volevo aggiungere che se qualcuno vuole fare una domanda a Franco è liberissimo di farla.

Intervento: È sempre incantevole e appassionante ascoltare Franco Cerri e penso che il libro rispecchi molto la sua personalità. È stata una bellissima idea quella di scrivere un libro così immediato.

Cerri: È stata molto importante l’amicizia nata con “I Sassetti”, con Pierluigi e sua moglie Giuseppina, perché mi sono trovato di fronte a qualcuno che la pensa più o meno come me, allora lì ci si lascia andare, si prende confidenza e vengono fuori delle cose abbastanza personali. E non è che ti metti lì a lamentarti, a parlare di quello che ti è andato male. No, queste cose le lasci fuori, perché deve esserci la speranza soprattutto per andare avanti e per capire qualcosa in più in questo oceano impossibile da frequentare. La musica è infinita. Grazie.

Capua: Qualcun altro?

Intervento: Buon giorno. Io vengo dalla terra di Gorni Kramer, sono mantovano. Vorrei che lei raccontasse gli scherzi che le faceva Gorni Kramer. Io l’ho conosciuto Kramer…

Cerri: Che bello! Ma è difficile da inquadrare. C’è stato un tempo in cui io e Giampiero Boneschi andavamo a Rivarolo, e lì incontravamo il papà di Kramer, Gallo si chiamava, era un uomo molto deciso. Era uno che litigava con una certa facilità e Kramer mi raccontò che in gioventù faceva parte del gruppo del papà. Durante una serata a teatro, dove la gente ballava anche, a un certo punto il padre dice: “Adesso ci riposiamo un po’, perché dopo attacchiamo con i Tanghi”. Da un palco si alza una voce che dice: “Inizia subito con i tanghi, altrimenti vengo giù io!”, una voce minacciosa. Il padre di Kramer non ha sentito storie e ha risposto: “No, No, vengo su io!”, ed è andata a finire che il padre di Kramer buttò quel tizio di sotto dal balcone.

Capua: Davvero?

Cerri: Sì, sì, e Kramer diceva sempre: “Se avessi avuto i soldi che il papà ha speso per tutte le grane che ha fatto, saremmo ricchissimi”. Kramer invece era molto tranquillo.

Intervento: Ma io so che le faceva degli scherzi, che le cambiava le tonalità mentre suonavate…

Cerri: Vigliacco!!! Cercavo sempre di dirgli di non farmi scherzi del genere e per questo suonavo vicino a Kramer e lui attaccava dei brani che sapeva che io non conoscevo. Davanti a noi c’era la gente che ballava e io non potevo cominciare se non dopo aver trovato la tonalità e solo poi potevo capire il brano. Dopo un paio di chorus avevo captato il gioco, e lui subito cambiava tonalità. Però è stata una bella palestra,

Intervento: Kramer mi diceva che il papà prima gli tirava due sberle e poi iniziava a parlare…

Cerri: Certo, e le dirò che il papà di Kramer andava a Milano, comprava una cinquantina di dischi per rivenderli. E davanti alla loro casa c’era una fila lunghissima per acquistare questi dischi. “Avanti il primo!” faceva, e il tizio gli domandava: ”Io vorrei un disco di Kramer!”, e il papà di Kramer invece riusciva a vendergli un’altra cosa dicendogli: “Ma no, per te non va bene quella roba, compra questo…”. Era una sagoma.

Capua: Pochi in realtà sanno che lui si chiamava Kramer Gorni, che in realtà Kramer era il nome e Gorni il cognome.

Cerri: Sì perché il papà di Kramer era appassionato di ciclismo ed una volta era andato a Parigi per vedere e incontrare il ciclista Frank Kramer e siccome la moglie era in stato interessante, ha pensato di chiamare il nascituro Kramer, ecco come è andata.

Capua: Il signore, credo voglia fare una domanda.

Intervento: Sì, credo che, come molti altri, abbiamo imparato ad apprezzare il jazz come una musica che nasce in contesti “non musicali” e che è cresciuta i ambienti piccoli, con pochi spettacoli, poche persone, in contesti spesso di piccoli locali fumosi e ricchi di fascino. Così lo abbiamo amato. Adesso, questa musica, da molti anni, il jazz soprattutto di carattere commerciale, è diventata una musica di grandi luoghi come il rock, uguale al rock.

Cerri: Non sono molto d’accordo…

Intervento: Non tutta, certamente, però viene proposta in grandi spettacoli, con numerosissime persone, e io vorrei esprimere l’augurio che questa musica rimanga una musica intima, non una musica per grandi concerti, ma che possiamo continuare a gustarla un po’ come abbiamo fatto ieri sera con lei.

Cerri: È bella questa idea, veramente, ma c’è anche un’altra cosa da dire: il jazz in Italia sta crescendo e si avvicina sempre di più al modo in cui viene trattata la musica classica. Però quello che è stato iniziato, è stato avviato in una nazione senza educazione musicale, e siamo sempre lì. Se ci fosse stata educazione musicale, il pubblico si sarebbe avvicinato molto di più. Tutto questo darebbe ovviamente maggiori opportunità al grande numero di musicisti che provano a vivere del loro lavoro. Invece, al momento sono in pochi.

Capua: Posso aggiungere una cosa? Se ci sono quattromila persone che vogliono vedere Sonny Rollins, dove le mettiamo? Questo è bello però! Oppure come accadrà tra qualche giorno, che ci sarà un duo tra Wayne Shorter e Herbie Hancock.

Cerri: Non tutti sono Sonny Rollins,

Capua: È un problema anche di conoscenza. Come nel tuo libro, se chiedo in giro chi conosce René Thomas, saranno in pochi a conoscerlo e questo è un peccato.

Cerri: René Thomas è stato forse il chitarrista che ho amato di più, ma lui aveva un problema con la droga purtroppo…

Capua: Una cosa che tu non hai mai toccato…

Cerri: Una volta, dopo essere stato per tre anni con Chet Baker, un po’ al basso, un po’ alla chitarra … una volta eravamo in una cittadina assieme ad altri musicisti francesi. Ad un certo punto Chet se ne esce dicendo: “Sapete, Franco non ha mai preso niente!”. E loro si sono messi tutti a ridere. Ed io mi sono come trovato a disagio al punto che mi sono detto: “Quasi quasi ne prendo anche io!”, giusto per non fare la figura del cretino. Per fortuna non è andata così… Chet poi fu incarcerato nella prigione di Lucca, perché la polizia lo aveva avvicinato rendendosi conto del fatto che Chet fosse un drogato. Chet mi aveva raccontato che durante l’interrogatorio in carcere i carabinieri avevano voluto sapere chi fossero stati i medici che gli avevano fatto la ricetta per quei farmaci. Chet fece i nomi di otto medici i quali, poi, hanno dovuto smettere di fare quella professione.

Capua: Questa non la sapevo.

Cerri: Questa è stata una cosa pazzesca perché quei medici non hanno più lavorato, non è stata una cosa molto bella da parte sua. E dopo aver fatto la prigione a Lucca abbiamo ripreso a suonare per circa quindici o venti giorni, assieme, ma in Italia non era più gradito, come si dice, e lo hanno rispedito in una città dove Chet avrebbe dovuto farsi un anno di prigione.

Capua: Una mia domanda finale, per una persona che ti è sicuramente stata vicina per tanto tempo, tua moglie che è qui con noi. E’ tutto vero quello che c’è scritto nel libro?

Marion Cerri: È vero, certamente, come tutte le altre cose che non sono entrate dentro il libro.

Capua: È stato facile o difficile vivere tutti questi anni con Franco?

Marion: L’uno e l’altro.

Cerri: Ci sono dei colori nella vita, e noi amiamo quei colori.

Capua: Un’ultima domanda?

Intervento: Due cose. La prima è che mi trovavo in prima fila la sera in cui hai fatto la festa dei tuoi ottant’anni assieme a tanti musicisti. Volevo sapere che cosa ricordi di quella serata. La seconda riguarda la tua vicinanza con la musica brasiliana.

Cerri: Una cosa … ho pianto tutta la sera … tutti i musicisti più bravi hanno partecipato, almeno una sessantina. Sono intervenute almeno tremilacinquecento persone all’Arcimboldi, ed è venuto a suonare anche Piero Angela. È stata una serata strepitosa e lo dissi anche a Piero…

Capua: E il tuo rapporto con la musica brasiliana?

Cerri: Ho suonato molto con Joao Gilberto, e lui mi diceva: “Tu non riuscirai mai a suonare la musica brasiliana, perché ci metti troppo jazz!”. Lui invece faceva la cosa opposta, metteva troppo brasiliano nelle sue improvvisazioni jazz. Stavamo delle nottate insieme a parlare. Bei ricordi, anche perché eravamo più giovani …

Capua: Ma Joao è una persona meravigliosa. Qualche tempo fa l’ho incontrato e mi ha chiesto: “Dov’è Lea Massari?”. E poi aggiunge: “Che donna meravigliosa!”. Chiudiamo con un tuo prossimo sicuro anniversario, i tuoi novant’anni. Magari qui a Umbria Jazz.

Cerri: Va bene, e speriamo di riuscire a suonare la chitarra nella solita posizione in cui la suono adesso…

 

* * *

 

[3] Platone, La Repubblica, Libro III, Mondadori, Milano 1990, p257.

 

* * *

 

Presentazione realizzata a Umbria Jazz Festival 2014 presso la Libreria Feltrinelli Perugia, Corso Pietro Vannucci Domenica 13 luglio 2014. Un ringraziamento a Crossmedial.net  e Umbriajournal.com per averci permesso di pubblicare le foto della presentazione. 

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