Brian McGuinness

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DI ANDREA CARNESECCHI E FRANCESCO PRATELLI

 

In alcuni testi descrive la scoperta del Tractatus di Wittgenstein come fondamentale per la sua vita… quando è avvenuto questo incontro?

Trovai questo libro quasi per caso in un’edizione bilingue inglese-tedesco nella biblioteca del Balliol College quando ero ancora un undergraduate e mi interessò subito moltissimo. In un certo senso questo è un libro che ho trovato per me stesso.

Quindi non era un testo che doveva studiare per l’università?

Esattamente, nessuno mi aveva detto di leggerlo, anzi, era un libro che solitamente veniva sconsigliato agli undergraduates. Ricordo che rimasi talmente colpito già dalle prime pagine che decisi di iniziare a leggerlo immediatamente.

Che cosa l’ha affascinata in particolare di questo libro?

La prima cosa che mi ha impressionato è il tono quasi profetico di questo testo che, evidentemente, è stato scritto proprio con l’intento di suscitare questo effetto. La sua forma aforistica dà al lettore l’idea di star stringendo tra le mani la soluzione di tutti i problemi. E con questo torniamo a ciò che vi dicevo poco fa, quando vi parlavo della mia idea di filosofia come di una super-scienza, di una disciplina capace di fornire la chiave d’accesso all’intero sapere. Anche se si tratta di un risultato che, ovviamente, non sarà mai in grado di ottenere, dev’essere questa l’idea che la guida. Questo per me è un aspetto fondamentale.

Essendo i miei primi insegnanti di filosofia piuttosto legati alla tradizione, difficilmente mi avrebbero potuto avvicinare ad un testo come il Tractatus ed infatti furono degli amici che avevano già scoperto e approfondito questa “nuova filosofia” a permettermi di incontrarla e ad introdurmi nell’ambiente dei tutors e dei fellows. Con questi ultimi potevo discutere non dico da pari a pari ma quasi, poiché ciò che ci accomunava era il fatto che tutti eravamo ugualmente persuasi da quest’idea di una nuova filosofia, di cui il Tractatus di Wittgenstein rappresentava il modello di riferimento. Gli altri studenti, invece, non essendo coinvolti quanto noi in quest’idea, e non conducendo la vita che noi conducevamo occupandoci di essa, non potevano permettersi certe libertà con i tutors e i fellows.

Ancora in Raffigurazione e forma nel Tractatus di Wittgenstein abbiamo trovato molto bello il passaggio in cui racconta come per voi studenti fosse importante, ancora più dell’insegnamento, ciò che chiama la “discussione informale della filosofia”. Ci vuol raccontare più nel dettaglio di quest’atmosfera che si respirava ad Oxford in quegli anni?

Devo dire che ciò a cui ti riferisci faceva parte della vita quotidiana all’interno del college. Le ore di insegnamento che eravamo tenuti a frequentare ci permettevano di avere il pomeriggio libero da impegni, dal momento che le lezioni ci occupavano soltanto il mattino e due ore la sera, dalle cinque alle sette. Mi emoziona ancora il ricordo di quelle stupende passeggiate pomeridiane nelle quali noi studenti passavamo al vaglio i problemi che erano emersi durante il nostro studio mattutino. Alcuni giorni poi, dopo cena – ovviamente non sette giorni alla settimana – organizzavamo dei seminari in cui leggevamo dei testi e poi tutti insieme ne discutevamo, come in una sorta di philosophical society. Ricordo ad esempio il gruppo di studio formato da David Pears, Mary Warnock, il sottoscritto e altri, nel quale affrontavamo l’impervia lettura del Tractatus tentando di chiarirne i punti maggiormente complessi e densi. Quindi la mattina frequentavamo le lectures, la sera dalle cinque alle sette eravamo di nuovo in classe e poi ci ritrovavamo tutti insieme a mangiare prima del seminario. Come ho scritto anche nel libro a cui avete fatto riferimento, non è che l’insegnamento non lo considerassimo importante, ma faceva da cornice alle nostre discussioni e ai confronti che ne derivavano che invece costituivano il vero cuore pulsante della nostra attività di filosofi.

Un racconto meraviglioso, ma cos’è che vi spingeva a vivere così intensamente la filosofia?

Probabilmente la fine della guerra portò con sé il desiderio di ricominciare a vivere in modo diverso da come si viveva prima del conflitto, cioè in un modo scevro da quei pregiudizi che, a nostro avviso, erano stati la vera causa della guerra. Per riuscire in questo, lo strumento che consideravamo più adatto era quello di tentare di “pensare con chiarezza”, così come avevano tentato di fare anni prima quelli del Circolo di Vienna, il cui sforzo non ebbe seguito solo perché fu ostacolato dal nazismo e dalla guerra. In questo senso eravamo mossi dai loro medesimi intenti, con la differenza però che il nostro approccio era meno professorale e meno professionale del loro e forse, in un certo senso, anche meno scientifico.

Quindi secondo lei qual è stato il vero vantaggio che le discussioni e i continui confronti che intrattenevate tra colleghi hanno apportato alla vostra filosofia?

Beh, siete voi che dovete giudicare i risultati di questo nostro modo di filosofare. È stato detto che quello che abbiamo fatto noi a Oxford in quel periodo ha condizionato per venti o trent’anni, che non è poco, il modo stesso di pensare la filosofia: abbiamo influenzato gli studi di logica, di filosofia della scienza, di filosofia del linguaggio e anche la Anglo-American Philosophy è stata in qualche modo condizionata dai nostri lavori. Oxford ospitava figure del livello di Michael Dummet, di Paul Grice e dello stesso Strawson, che vi ho già citato in precedenza e che Russell riconosceva essere un grande studioso di logica nonostante in realtà la odiasse. Pensate, un buon logico che odiava la logica.

Se invece la filosofia volesse fare a meno del confronto diretto tra le persone riducendosi al solo insegnamento e alla trasmissione delle conoscenze, cosa pensa che perderebbe?

Posso solo dirvi che se questo dovesse accadere sarebbe un vero peccato. Lo stesso Wittgenstein era solito dire che la filosofia consiste proprio nel dialogo fra le persone. Infatti, più il discorso diventa tecnico, più si limita ad essere soltanto scritto e poi studiato e più alto è il rischio di perdere questo dialogo.

Intervista realizzata il 28/06/18

Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ricorda che tutti gli articoli presenti all’interno di questo sito possono essere liberamente consultabili e scaricabili. In caso di utilizzo del nostro materiale sarebbe onesto, nonché eticamente corretto, contattare gli autori e citare la fonte. Il Centro Sperimentale Pedagogico Tyche ringrazia e augura buona lettura. Il testo completo dell’intervista sarà inserito in un volume di prossima pubblicazione.

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