Giuseppe Panella – Ritorno a Pasolini
Dal 1975, anno della sua tragica scomparsa sulla battigia del lido di Ostia, a oggi la bibliografia relativa all’opera di Pier Paolo Pasolini si è più che raddoppiata. Non solo: la pubblicazione della sua produzione letteraria, assai arricchita dalla ristampa di scritti poco noti o dalla scoperta e presentazione di inediti cospicui e illuminanti, è pressoché terminata e disponibile per il lettore che si voglia confrontare con essa. Pasolini è diventato un “classico” del Novecento non solo italiano e i suoi libri non spaventano ormai più neppure i borghesi più facilmente épates dallo scandalo della sua vita “scellerata”. Anzi alcuni dei suoi testi più noti non hanno dovuto faticare molto per diventare libri di testo nelle scuole.
Scrivere su Pasolini non è più riservato a coloro che lo hanno conosciuto o ri-conosciuto fin da subito ma è ormai operazione largamente condivisa da un circuito sempre più vasto di critici letterari, critici cinematografici, critici teatrali, studenti e professori di queste discipline. Che senso ha, allora, proporre oggi un “ritorno a Pasolini”, a quasi trent’anni dalla sua morte?
Se ci si prende la briga di sfogliare l’antologia della critica riproposta a dieci anni di distanza dalla sua prima edizione da Pasquale Voza[1], si noterà che, a parte le prime recensioni giornalistiche e le discussioni anche molto aspre del primo periodo della sua recensione critica, la riflessione su Pasolini è sempre stata parcellizzata e risolutamente delegata alle specializzazioni accademiche. I critici letterari che si sono occupati della sua poesia e della sua narrativa tendevano a relegare nei limbi translucidi dei “linguaggi speciali” la sua opera cinematografica e i critici di cinema non si azzardavano a parlare della sua opera in versi e in prosa e (spesso) neppure della qualità letteraria delle sue sceneggiature. Per cui se la prima fase delle operazioni critiche sui suoi testi (a partire dal “miracoloso” riconoscimento critico di Contini operato su Poesie a Casarsa del 1942 per finire con la “demolizione” tutta ideologica dei vari Salinari, Angelo Guglielmi e Fausto Curi) si contrappone la grande battaglia sui principi che seguirà la svolta del ’68 (penso in particolare a Scrittori e popolo di Alberto Astor Rosa e alle discussioni – sensate e in-sensate – cher spesso suscitò a partire dal 1969) e poi la sua morte, si può facilmente convenire che sempre di prese di posizione si tratta, anche se spesso straordinariamente ben motivate per rigore, buona fede (ideologica) e nitore formale.
La presa di posizione, però, presuppone la sicurezza di chi già sa dove situarsi, su che crinale o su che trincea attestarsi e che risposta dare alle “provocazioni” (il caso Salinari docet)[2].
Per questo motivo, parlare di Pasolini è diventato oggi più facile e più difficile nello stesso tempo. È più facile perché non bisogna più necessariamente prendere posizione sulle grandi questioni del bene e del male, della vita e della morte, sul “radioso sole dell’avvenire” o su Zdanov. È più difficile perché sul merito dell’opera non si può glissare accusando il suo autore di essere questo e/o quello (populista o reazionario, troppo sbilanciato o troppo arretrato, decadente o teppista, oggettivamente dalla parte dei nemici del popolo o soggettivamente immaturo). Non si può più insomma pretendere di avere una posizione soltanto polemica ma bisogna saper argomentare e sviluppare i propri punti di vista.
Certo su Pasolini le polemiche non sono mai mancate, anche quando sembrava che l’interesse sulla sua figura si fosse placata e la violenza spesso ideologica della ripulsa si stesse trasformando nell’interesse (più accademico) per la ricerca e la comprensione. L’apprezzamento e la polemica, vivamente ricercati dallo stesso Pasolini in vita, si sono quasi sempre via via e con il passare del tempo trasformati in volontà di capire le ragioni della sua scrittura e verificare la natura profonda delle sue ossessioni letterarie, morali, civili, artistiche.
Ma tra il rifiuto spesso pregiudiziale della sua poetica e della sua opera letteraria multiforme e stratificata e l’accettazione acritica della sua grandezza (due atteggiamenti spesso mescolati paradossalmente insieme) esiste sempre la possibilità e, a mio avviso, la necessità di attestarsi sull’istmo della capacità di esplorarla con l’attenzione e il desiderio che l’opera di Pasolini da sempre ha saputo meritarsi.
Per questo motivo, «Notes Magico» propone qui di seguito cinque riflessioni sul mondo culturale, morale e letterario-artistico di Pier Paolo Pasolini: sulla sua cultura classica e il suo recupero della Grecia arcaica (Baldassarre), il suo cinema del mito, la sua prospettiva poetica e la sua mediazione sulla natura ontologica dello sguardo (Bernardi), sulla vocazione pittorica dello scrittore e la sua verifica nell’ambito della sua pratica di scrittura (Galluzzi), sulle teorie “profonde” della sua proposta di vita e sulla sua idea di cultura come dimensione onnicomprensiva (Guidi) e sul cinema come “continuazione e sviluppo” della sua poesia lirica e della sua attività di scrittore di sensazioni ed idee (Panella).
Nella speranza che tutto possa servire a dare del poeta di Casarsa e dei “ragazzi di vita” un’idea meno scontata e “schierata” ma soprattutto più lungimirante, più attenta alla verità della sua vicenda umana e morale e, soprattutto, più capace di entrare nelle molteplici pieghe del suo percorso intellettuale e letterario.
NOTE:
[1] P. Voza, Tra continuità e diversità: Pasolini e la critica. Storia e antologia, Napoli, Liguori 2000. Secondo Voza: «In connessione con l’intensità del dibattito post mortem e con la sua durata attuale si è andata alimentando – si potrebbe dire – una duplice immagine dell’opera e del ruolo di Pasolini: da un lato, l’immagine di una forza inesausta di ribellione, di opposizione, di trasgressione, sostanzialmente funzionale, tuttavia, ai meccanismi onnivori del “sistema” e dell’industria culturale; dall’altro, l’immagine di una diversità irriducibile, capace di scagliare profeticamente la sacralità estetica della vita, la forza “scandalosa” dell’utopia contro il “genocidio” di un Potere sempre più totalizzante, contro il destino di omologazione e di afasia di un universo sempre più orrendo», p.42. questa opinione di Voza è largamente sottoscrivibile anche se con un distinguo piuttosto rilevante in questo momento: che quella ribellione ed opposizione si sono trasformate, nelle pagine di Pasolini, non tanto in reazione viscerale all’odiosità dell’ “universo orrendo” quanto in un pensiero critico vivo e illuminante, in dimensione antagonistica e conflittuale ancora utilizzabili nell’opposizione radicale al presente e, soprattutto, in un “messaggio nella bottiglia” per ancora altre (e temo molte) generazioni a venire.
[2] «No, non è prospettivismo il nostro: non vogliamo contrapporre la speranza alla disperazione, l’ottimismo al pessimismo, un frutto roseo ad una realtà caotica. Vogliamo, semplicemente, capire: sciogliere con la ragione i mille nodi di questa stupenda e misera storia che viviamo. Pasolini è la voce disperata di uno di questi nodi: una voce che riecheggia nella nostra coscienza e di cui la nostra lingua, quasi “per se stessa mossa”, ripete talvolta le parole. Tuttavia non è la voce della ragione tutta tesa a comprendere le miserie e gli orrori, gli eroismi e le speranze dei nostri tempi. Noi possiamo apprezzare ed amare la sua poesia, ma non possiamo rinunciare – anche a costo di prenderci l’accusa di prospettivismo – a questa nostra ostinata volontà di mettere a confronto e conoscere tutti gli aspetti della nostra epoca. Inferno, Purgatorio e Paradiso intrecciati insieme». Così scriveva Carlo Salinari in un testo del 1957 (poi raccolto in La questione del realismo, Firenze, Parenti 1960, p.148). L’accusa di “prospettivismo” rivolta da Pasolini ai suoi detrattori di parte marxista derivava direttamente dalla polemica iniziata da Lukàcs nei confronti del “realismo socialista” di marca zdanoviana: il filosofo ungherese invitava a non precorrere troppo i tempi in letteratura e a non “prospettare” la soluzione dei problemi sociali e esistenziali dell’umanità prima di essere passati dal “regno della necessità” a quello della “libertà” (giuste le indicazioni marx-engelsiane in l’ideologia tedesca). Pasolini raccogliendo questa allora preziosa indicazione di Lukàcs ritorceva nei confronti dei suoi avversari “di sinistra” l’accusa e invitava a cogliere nel presente la disperazione e l’angoscia che lo attraversavano: una disperazione sia pure “vitale” e combattiva, un dolore fatto di volontà di vivere e di continuare a lottare. La discussione, probabilmente oziosa anche allora sotto il profilo delle categorie della critica letteraria, appare oggi completamente destituita di ogni fondamento ideologico. Ma valeva la pena di menzionarla in sede storica per sbarazzarsene una volta per sempre.
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