Il suicidio come messaggio d’amore
di Alessandro Guidi
1) La clinica del suicidio.
Il suicidio come atto radicale del soggetto ha tre caratteristiche fondamentali: 1) soddisfa, attraverso l’atto suicidario (acting out o passaggio all’atto), la pulsione di morte che è presente nella vita del soggetto depresso come tentativo ripetuto di azzerare permanentemente la meta della pulsione, meta che per il soggetto stesso consiste nel soddisfare illusoriamente e ogni volta la stessa pulsione in modo definitivo attraverso investimenti libidici che gli procurano una forma di godimento; 2) crea negli altri, familiari e opinione pubblica in genere, degli effetti privati e sociali di angoscia; 3) consiste nell’appello e nella domanda che il soggetto rivolge all’Altro (all’Altro genitoriale, all’Altro sociale, all’Altro istituzionale o all’Altro della cura). Ci possiamo chiedere se questo tipo di appello sia inutile dato che la risposta non torna mai indietro.
Nella intenzione del suicida l’appello consiste nell’invio di un ultimo messaggio, tardivo e definitivo, all’Altro, un messaggio che cade nel vuoto della risposta e fa emergere la tragicità della domanda del soggetto suicida. Una domanda d’amore negata e incompresa, sottoposta all’urgenza della crisi e che si risolve nella soddisfazione definitiva della morte intesa come ciò che regge simbolicamente la domanda d’amore stessa: il niente in cui il soggetto dell’inconscio si placa andandovi a coincidere. Per il suicida la morte diventa l’Altro da cui essere amati e il godimento della vita una rinuncia definitiva ed un ritiro da qualunque investimento libidico. Per arrivare all’atto suicidario il soggetto costruisce una lunga preparazione fatta di crisi ripetute e di appelli di aiuto all’Altro che ogni volta cadono nel vuoto e sottraggono così progressivamente il quantitativo economico-libidico a disposizione del soggetto inconscio per godere della vita. Lacan ci dice che la vita è l’insieme delle resistenze che si oppongono alla morte e dunque una volta che queste resistenze cadono, il soggetto sprofonda nello spalancamento del niente come primo atto interiore che precede l’atto suicidario. La clinica psicoanalitica su quest’ultimo punto, ovvero sulla temporalità dell’atto interiore che precede l’atto suicidario (acting out o passaggio all’atto) ha evidenziato la differenza strutturale del soggetto che compie tale atto e di conseguenza la particolare preparazione messa in atto dal soggetto inconscio nel rendere visibile il suo proposito all’Altro.
L’atto fondamentale di questa differente preparazione soggettiva consiste nella logica della domanda che si distingue in domanda dell’Altro e domanda all’Altro: il suicidio può essere inteso come un atto di sottrazione, progressiva o repentina, del soggetto alla domanda dell’Altro (Altro genitoriale, Altro sociale, Altro della cura), domanda avvertita dal soggetto come pressione insopportabile e invadente, oppure il suicidio può essere inteso come logica conseguenza di un fallimento continuo della domanda che il soggetto rivolge all’Altro (domanda che va dal grido, al pianto nella richiesta di nutrimento nella prima infanzia e a tutte quelle forme dirette o indirette che mettono in evidenza un disagio del soggetto e tra queste anche il tentato suicidio in età adolescenziale). In quest’ultimo caso il ricorso al suicidio rivela una domanda silenziosa che può persistere nel soggetto manifestandosi in una successione articolata di forme senza che tale domanda sia sostenuta da un’intenzione completamente cosciente; non c’è in effetti alcuna domanda dell’Altro che preme e spinge il soggetto alla risposta, ma c’è invece una domanda rivolta all’Altro, domanda che non potrà mai essere soddisfatta perché non ci sarà nessuno che soddisfi pienamente il soggetto nella sua esigenza di idealizzazione, qualcuno che, in carne ed ossa, sostituisca l’unico uomo che ha diritto, secondo le norme edipiche dell’inconscio ovvero dell’Altro, di essere idealizzato, cioè il padre reale oppure qualcuno che abbia le caratteristiche sociali per essere considerato come il padre generatore di un movimento culturale, politico, religioso che porta lo stesso nome del padre; un padre che si pone per il soggetto come un Altro idealizzato inteso come l’interlocutore privilegiato, cioè immaginariamente simbolizzato, a cui la domanda è rivolta e che serve al soggetto per guardarsi, per darsi una immagine, una identità e contemporaneamente serve per situare le proprie coordinate simboliche che hanno la funzione di inquadrarlo in un discorso che faccia legame sociale con una comunità. Perché questo Altro perda le sue funzioni idealizzanti bisogna che per il soggetto, alla frontiera dell’adolescenza, un padre decada dalla sua funzione ideale di farsi portatore di un nome unico per la comunità oppure che l’Altro idealizzato, incarnato nel padre reale, perda, agli occhi del soggetto, le sue funzioni idealizzanti in quanto appare come colui che tradisce, con la sua morte, il soggetto adolescente oppure decada dalla sua posizione di cavaliere, di eroe, di modello con cui identificarsi e dal quale guardarsi oppure decada dalla posizione di uomo ideale da sposare. Questa caduta o morte dell’Altro paterno si situa all’inizio del secondo tempo della costruzione fantasmatica del soggetto, al crocevia tra l’infanzia e l’adolescenza e si pone precisamente come il secondo momento edipico in cui si decidono le sorti della sessualità del soggetto rispetto alla posizione che egli ha acquisito nei confronti dell’oggetto d’amore infantile e che il soggetto stesso è spinto a ritrovare nell’altro sesso all’interno della comunità sociale degli altri in generale; ed infine è proprio in questo secondo tempo che si manifestano gli effetti depressivi sul soggetto adolescenziale causati dalla caduta o dalla morte dell’Altro Idealizzato (Ideale dell’Io) caduta che svela così la natura assoluta della domanda che il soggetto infans ha rivolto all’Altro genitoriale: «L’Ich-Ideal, l’ideale dell’io, è l’altro in quanto parlante, l’altro in quanto ha con me una relazione simbolica, sublimata, che nella nostra manipolazione dinamica è contemporaneamente simile e differente dalla libido immaginaria. Lo scambio simbolico è ciò che lega tra loro gli esseri umani, cioè la parola e che permette d’identificare il soggetto»2.
E’ dunque la domanda rivolta all’Altro che fa sì che il soggetto mantenga l’immagine ideale del padre assolutizzandola come rappresentazione del Padre morto, una volta che il Padre reale idealizzato e traditore sia decaduto dalla sua funzione di eroe e mito abbandonando così il soggetto adolescente al suo destino, già scritto prima di trovarne e costruirne un altro.
Il destino del soggetto già scritto riguarda edipicamente il destino delle pulsioni e la trama che il soggetto stesso ricama intorno alla perdita di godimento, perdita detta anche castrazione, perdita necessaria che il soggetto deve subire per avere come contropartita il suo ingresso nel campo del linguaggio simbolico e dunque aver la possibilità di parlare. Una volta che il soggetto è entrato nella parola deve trovare un sostegno a cui aggrapparsi per difendersi dalle chimere del godimento mortifero rappresentato dalla ripetizione fantasmatica del materno della madre reale ed è dunque verso un Altro che l’infans, alla frontiera con l’età adolescenziale, cercherà, a secondo della natura interna di queste chimere e sirene, un padre sul versante dell’Ideale: «La rappresentazione del padre dal versante dell’Ideale e dei valori, come quella della sua funzione, comporta se non direttamente la trascendenza, almeno il potere, l’autorità, la legge, la verità della parola»3.
L’Ideale dell’Io (versante ideale del padre) è un’istanza che il soggetto eredita dal complesso edipico ed è incarnata dal padre nella sua doppia funzione simbolica e immaginaria; la funzione simbolica serve a delineare e a definire da quale posizione il soggetto vede il mondo e la realtà degli altri, serve a definire da quale posizione egli si relaziona con gli altri nel gioco immaginario delle dinamiche post infantili: ed è proprio l’Ideale dell’Io a comandare questo gioco. Quando il gioco si interrompe o non decolla si creano le premesse per la depressione e dunque le condizioni per il suicidio e ciò accade proprio perché il padre come Ideale dell’Io è compromesso a causa della caduta delle insegne ideali che lo rappresentano: queste ultime si congelano e in un certo senso sono non trasferibili come vediamo stampate su certi tipi di assegni bancari. In sostanza la morte fisica del padre o la caduta delle insegne è vissuta dal soggetto stesso: 1) come una perdita senza lutto ed impossibile da poter elaborare e superare; 2) oppure un lutto che il soggetto non vuole elaborare per cui gode e si crogiola nella perdita e nella caduta stessa delle insegne Ideali; 3) oppure il soggetto rimane attaccato e affezionato a ciò che è stato prima della morte del padre, domanda aiuto e contemporaneamente si sforza con volontà di trovare un interlocutore che sappia ascoltare la sua sofferenza per un lutto che stenta ad elaborarsi.
Gli effetti di questo non superamento hanno come conseguenza clinica lo scatenamento di fenomeni di depersonalizzazione depressivi o melanconici che possono chiudersi con un atto radicale suicidario, anche se il suicidio come atto soggettivo non è sufficiente per indicare la natura del sintomo depressivo e melanconico del soggetto nella loro differenza strutturale; indica solo che vi è stata una risposta sensata del soggetto, l’unica per lui possibile per sottolineare e stigmatizzare una risposta altrettanto idealizzata dal soggetto che l’Altro non poteva dare poiché le insegne del Padre ideale sono insostituibili in quanto congelate.
Sempre più spesso veniamo a conoscenza di suicidi apparentemente senza motivo, suicidi che appaiono improvvisi e senza senso e per i quali vengono spese parole che sono prive di fondamento scientifico; essi piuttosto sono, invece, segnali di un disagio sociale diffuso che scatenano ansia e angoscia nella comunità sociale, che promuovono talvolta degli effetti di imitazione nei più giovani e che lasciano sgomenti perché fanno precipitare nel vuoto dell’ irrazionale ogni risposta possibile e sensata. Anche in questi effetti sociali ansiogeni che sono il riflesso di un evento traumatico, come è il suicidio, mancano dei punti sapienziali di riferimento stabili, così come mancano le coordinante simboliche che il soggetto fragile, depresso o melanconico non trova più nell’Altro: il contesto sociale cerca un senso nell’atto suicidario mentre il soggetto suicida, radicalizzando la risposta inesistente dell’Altro, dirige il senso del suo atto verso il destinatario a cui l’atto è rivolto cioè all’Altro sociale in generale. Ciò è un’ulteriore conferma della crisi della funzione paterna sui due fronti simbolico ed immaginario: il primo serve a nominare le cose e le azioni, serve a coordinare e a mettere ordine nelle relazioni familiari e sociali del soggetto e a posizionarlo all’interno di esse, serve a distinguere ciò che è intimo ed interiore da ciò che appartiene alle relazioni esterne con l’Altro sociale, mentre il secondo fronte serve al soggetto a vedere il padre come oggetto d’amore, oggetto causa del desiderio colto nell’Altro (ovvero all’interno delle coordinate significanti del primo fronte simbolico) e poi riflesso sul soggetto. Lacan ha sottolineato, fin dai suoi primi scritti sulla famiglia, che questo doppio movimento di reperimento nell’Altro e di riflessione conseguente sul soggetto è profondamente in crisi a causa della svalorizzazione e caduta (primo fronte) della funzione simbolica del Nome del Padre, caduta che ha degli effetti clinici sul soggetto infans che si trova al crocevia dell’adolescenza ed effetti destabilizzanti anche sul discorso sociale e sui legami sociali che sono regolati, come sappiamo, proprio dall’Ideale dell’Io (secondo fronte immaginario del padre).
La risposta del soggetto suicida a questa crisi è come sappiamo o di tipo melanconico o di tipo depressivo; è proprio la natura della domanda che rivela la natura del sintomo: ma quando la rivela a chi la rivela, dal momento che il soggetto suicida non può farlo prima del suo atto in quanto non sa l’ora della sua morte e dal momento che non tutte le depressioni o le melanconie conducono al suicidio del soggetto?
Tra le due strutture patogene (melanconia-psicosi e depressione-nevrosi) è quella depressiva a condensare i segni anticipatori di un atto suicidario e questo perché la domanda che il soggetto depresso rivolge all’Altro costituisce la discriminante differenziale tra la clinica della melanconia psicotica e la depressione isterico-nevrotica, in quanto nel suicido melanconico non c’è traccia di domanda all’Altro, il suicidio melanconico è senza appello, mentre il suicidio depressivo è un suicidio di appello, dove il soggetto si appella all’Altro più volte e fa appello all’Altro, un appello reiterato ad un Altro che non c’è e che non risponde; ma che cosa è che non risponde nell’Altro? Non risponde il secondo fronte dell’Altro paterno ovvero il padre come oggetto d’amore Ideale: il soggetto depresso indica che c’è bisogno di un suicidio perché l’Altro risponda. Infatti il soggetto suicida con il proprio appello sollecita l’Altro (Altro sociale, Altro del sapere, Altro della cura) nel punto in cui è caduta l’insegna idealizzata dell’amore verso il padre (Ideale dell’Io), ma anche nel punto soggettivo di congelamento che riguarda l’esigenza del soggetto di essere sostenuto in questa caduta stessa ed in questo congelamento mortifero oppure di essere sostenuto nella morte reale del padre (l’oggetto d’amore) e nella elaborazione del lutto che consiste nella appropriazione del soggetto della funzione simbolica del Nome del Padre caduta e svalorizzata.
Questi cenni sulla clinica del suicidio servono ad inquadrare il suicidio come un evento che sconvolge sia il contesto che lo subisce direttamente (Altro familiare) sia l’opinione pubblica (Altro sociale), è un evento che quasi sempre arriva inaspettato e senza giustificazioni, un evento che sospende la domanda dell’Altro perché la risposta spesso non è annunciata con nessun biglietto o messaggio che dia dei segnali e delle indicazioni. Che cosa rimane? Rimane solo la storia passata nei ricordi dell’Altro familiare o sociale oppure nelle opere e nelle tracce scritte del soggetto suicida.
Che cosa si può fare contro un evento la cui domanda consiste nell’atto stesso? Che cosa avrei potuto fare per salvare dal suicidio quel soggetto? Ho forse sbagliato ad intervenire oppure ho sbagliato a non intervenire? Che cosa posso fare per evitare tale pericolo? Queste domande sono in sintesi le questioni che un operatore e che un terapeuta si pongono quando hanno a che fare con un suicidio, evento dunque che inquadra l’atto operativo sui soggetti fragili e deboli affetti da depressione o sugli adolescenti che si trovano, nella risoluzione edipica, esposti per cronologia ed età ad affrontare gli effetti depressivi della caduta delle insegne paterne idealizzate.
Vorrei a questo punto proporre una tesi che mette l’accento sulle forme paterne e sulla crisi che attraversa la figura e la funzione del padre nell’Altro sociale moderno e ciò ci permette di ripensare la clinica del suicidio depressivo, intesa come forma dominante di soggettivazione estrema e radicale, secondo il seguente rovesciamento postfreudiano: 1) il soggetto non si suicida perché ha nostalgia del grembo materno e non invoca un ritorno a ciò che ha originariamente perduto, ritorno che otterrebbe nella morte; 2) il soggetto depresso si suicida perché chiama l’Altro paterno, che non c’è più o non c’è mai stato nella sua funzione simbolica di oggetto d’amore idealizzato a mostrare questa sua assenza e rimprovera l’Altro sociale per averlo abbandonato al suo destino, in balia degli effetti dell’Altro materno o dell’ignoto delle pulsioni e della sua potenza immaginaria e reale (La Cosa); 3) il soggetto depresso, dunque, si suicida dando generalmente una testimonianza del suo processo graduale di elaborazione intorno al rimprovero diretto verso l’Altro paterno oppure non lascia niente di scritto e consegna all’Altro solo l’enigma della sua morte.
Inserirsi in questo processo di elaborazione graduale del soggetto costituisce la scommessa clinica dell’operatore all’interno della direzione della cura della depressione.
Farò un esempio tratto dalla letteratura, campo sempre fecondo di reperimento didattico ed esercitativo per la psicoanalisi, dove si vede come la funzione paterna e la morte del padre reale hanno determinato il suicidio depressivo del soggetto il quale ha mantenuto fermo e fino alla sua morte lo sguardo e la domanda indirizzata all’Altro paterno morto ed idealizzato, Altro che comprende anche le figure dell’Altro operativo, dell’Altro della cura e dell’Altro sociale.
Il caso Sylvia Plath e i tre tradimenti.
a) Il tradimento dell’Altro paterno.
Vorrei cominciare a ricordare come il suicidio esemplare di Sylvia Plath (27 Ottobre 1932 – 11 Febbraio 1963) – che a mio parere può essere preso a modello per una riflessione sugli effetti depressivi provocati dall’indifferenza e dalla sordità dimostrata dall’Altro (genitoriale, sociale, medico) in quanto questi non ha saputo raccogliere l’appello di aiuto del soggetto protrattosi fino alla perdita di tutte le resistenze vitali, fino alla morte – sia stato determinato già fin dall’inizio della vita di Sylvia e cioè dall’evento traumatico della morte del padre Otto che l’autrice ricorda e fissa con la scrittura e dunque nella sua memoria inconscia. Dalla biografia Immagini e parole si può estrarre una frase che è da considerarsi, da un punto di vista clinico, una vera e propria lezione interpretativa che situa le ragioni della depressione di Sylvia e al tempo stesso mette in gioco la sofferenza del soggetto ed infine rivela l’appello all’Altro:
«Ed è così che si fissa la mia immagine di quella infanzia marina. Morto mio padre ci trasferimmo tutti all’interno. E così quei primi 9 anni di vita vennero sigillati come una nave in una bottiglia – belli, inaccessibili, obsoleti, uno splendido bianco mito fuggente».4
La nave nella bottiglia, che corrisponde metaforicamente all’infanzia di Sylvia sigillata per sempre all’interno di un luogo vetroso e trasparente ma inaccessibile e protetto, corrisponde al primo appello lanciato da Silyia al mondo e all’Altro per enunciare che la morte del padre aveva segnato nella sua vita di bambina di appena 9 anni una divisione, una frattura con il “prima”, un prima racchiuso nella bottiglia e descritto dalla scrittrice come mitico, inaccessibile e splendido. Che cosa voleva comunicare al mondo in quella bottiglia oltre a descrivere quegli anni come mitici e splendenti? Sylvia voleva dire all’Altro due cose: che quei 9 anni passati con il padre saranno fissati come perdita, come il buco intorno al quale muoverà la sua scrittura e la sua vita di donna e che suo padre l’aveva abbandonata solo dopo 9 anni di vita insieme, per cui qualcuno doveva ascoltarla, ascoltare la sua sofferenza. Sylvia aveva urgenza di dire in qualche modo il suo dolore, doveva in qualche modo e in qualche luogo collocarlo, doveva trovare un interlocutore che raccogliesse l’angoscia provocata da quell’immagine che le invadeva la mente, un reale bruciante che accendeva il suo amore-odio per il padre morto: «Avevo circa 8 anni e correvo con mio padre felice lungo la calda spiaggia bianca l’estate prima che lui morisse»5 .
Una prima riflessione su queste note che riguardano il caso di Sylvia Plath ci fa dire come sia particolarmente significativo, da un punto di vista clinico e operativo, fare attenzione alle esperienze di frontiera che un bambino è costretto a vivere suo malgrado, quando subisce il trauma della perdita, dell’abbandono dell’oggetto d’amore nella prima infanzia: la morte del padre in questo caso rappresenta la frontiera ed il limite che consegna Sylvia bambina a qualcosa di mitico, ad uno spazio e ad una spiaggia bianca; nove anni se ne sono andati per sempre in quella bottiglia e insieme a loro la morte del padre. Questa consegna è l’elisione significante di ciò che edipicamente rappresenta il padre per Sylvia ovvero quell’Ideale dell’Io che è la costellazione delle insegne del soggetto alla frontiera tra ciò che si costituisce come interno-familiare, ovvero un sigillo assoluto di quegli anni felici, intoccabili e irripetibili per il soggetto, e l’esterno costituito dai legami sociali nella comunità con gli altri, comunità che rappresenta il luogo dove il soggetto costruisce le sue proiezioni ortogonali costituite dalla stoffa dell’impossibile dell’interno del soggetto che è appeso alla domanda rivolta all’Altro paterno perduto per sempre. L’Ideale dell’Io è quel ponte di frontiera immaginario che serve a collocare il soggetto infans nelle questioni del reale del corpo che esplodono in età adolescenziale (interno-familiare) nella quale il soggetto cerca un’appartenenza ad un gruppo, ad una comunità che abbia certi tratti presenti già nell’Ideale paterno. La morte del padre per Sylvia è un atto di derelizione, una caduta dell’insegna paterna e una distruzione del ponte tra l’interno pulsionale congelato e l’esterno-sociale; si apre un buco nell’Altro a livello immaginario che rivela la divisione soggettiva di Sylvia tra l’appello all’Altro con la meta di ricostituire nell’Amore l’ideale paterno decaduto e l’urgenza pulsionale di scrivere sul bianco della pagina con la meta di conservare intatto nella bottiglia il bianco della spiaggia in cui correva felice con il padre.
Sylvia trova una comunità a cui appartenere, in cui sentirsi riconosciuta dall’Altro sociale e dall’Altro dell’amore? Il suicidio di Sylvia è la risposta a questa domanda: non esiste alcuna comunità in cui lei si è sentita appartenere in modo soddisfacente, né la comunità degli scrittori, né la comunità delle madri, né la comunità delle donne, e ciò, nonostante che Sylvia abbia continuato a scrivere intensamente, abbia costruito una famiglia con due figli e nonostante che partecipasse alla vita sociale. Non c’era luogo in cui si sentisse sostenuta dall’Altro perché nell’Altro c’era un buco al posto dell’Ideale paterno decaduto; la scrittura è stata, in definitiva, la sola risorsa, anche se parziale, con la quale Sylvia ha fatto in conti con la perdita ed il buco nell’Altro: «Sentivo che se non avessi scritto nessuno mi avrebbe riconosciuta come essere umano. La scrittura allora era la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo»6.
Sylvia scrive ciò a 26 anni ma sono le stesse ragioni della Sylvia bambina di 9 anni e dell’adolescente di 16 anni che cercava un riconoscimento nella scuola applicandosi con grande concentrazione e che faceva tutto intensamente come ci dice lei stessa nel suo Diario nei primi anni di College: «Voglio vivere intensamente […] Voglio essere libera […] credo di voler essere onnisciente […] potrei chiamarmi “la bambina che voleva essere Dio”»7.
La risorsa artistica della scrittura non è bastata a scongiurare il suicidio di Sylvia perché la sua poesia ha assorbito completamente nel tempo il suo appello all’Altro, un Altro che Sylvia sentiva esigente, talmente esigente che negava l’appello di Sylvia e ciò le provocava un sentimento di rabbia. Sentiamo la scrittrice riportare nei suoi Diari un’interpretazione della sua analista a proposito della rabbia: «C’è una differenza tra la sua insoddisfazione personale e la rabbia, la depressione. All’insoddisfazione c’è rimedio: se non sai il tedesco, puoi impararlo. Se non hai scritto, puoi cominciare a farlo. Se sei arrabbiata con qualcuno e ti reprimi, entri in depressione»8. Chi è questo qualcuno a cui Sylvia si riferisce? La scrittrice dà una risposta di frontiera, dimostra senza saperlo di abitare la frontiera tra l’esterno e l’interno, tra il familiare-interno e ciò che del familiare si ritrova all’esterno, nel sociale, nella realtà sociale:
«Con chi sono arrabbiata? Con me stessa? Non con me stessa. Con chi altro allora? Con […] tutte le madri che ho conosciuto e volevano che fossi come io nel profondo non volevo essere e con la società che sembra volerci come nel profondo non vogliamo essere: è con queste persone e con questi modelli che sono arrabbiata»9.
Soffermiamoci su questo ultimo punto, su questa indicazione preziosa di Sylvia; che cosa è dunque la depressione? E’ una rabbia che il soggetto rivolge verso se stesso, una rabbia radicale che non trova nell’Altro una risposta al proprio appello. La rabbia di Sylvia indica che l’odio, che il soggetto avverte, lo rivolge contro se stessa e rivolge verso se stessa un odio che è indirizzato verso l’Altro; ma chi è l’Altro verso cui il soggetto può indirizzare il proprio odio? E’ un Altro incarnato, un altro reale? Sylvia a questo proposito ci fornisce ancora una volta una indicazione ed una interpretazione tratta dal materiale delle sue sedute psicoanalitiche con la dottoressa Ruth Beuscher ed inoltre ci fornisce una indicazione di ciò che è la realtà per lei, o meglio per dirla con Freud, il principio di realtà, il proprio principio di realtà, il proprio personale orizzonte da cui il soggetto inquadra la realtà oggettiva: l’Altro è un insieme di tutte le madri che il soggetto ha conosciuto e patito come donna-madre, l’Altro è un modello che tutte queste madri volevano imporle fino a toccare e a scardinare il suo essere “nel profondo” rispetto a ciò che il soggetto non vuole essere. C’è dunque una non-volontà soggettiva che fa resistenza all’Altro e al suo potere personale (la somma delle madri conosciute da Sylvia) potere che si estende anche all’Altro sociale che costringe a mettere il soggetto sullo stesso suo piano: Sylvia non riesce a mettersi alla pari dei ruoli e dei modelli voluti dall’Altro sociale, «perché non voglio»10 ; non vuole che cosa? Sylvia non vuole piegarsi al bisogno ed al godimento dell’Altro sociale, estensione dell’Altro materno, che chiede a Sylvia: «che porti i soldi, macchine, buone scuole, TV, ghiacciaie e lavastoviglie e la sua sicurezza. Tutto»11 . L’Io di Sylvia, che nel profondo non vuole essere, ha altri modelli; infatti si rivolge al suo Ideale-Io perduto, il padre che ama e odia perché, con la sua morte, l’ha esposta alla forza ed alla domanda dell’Altro materno e Altro sociale. La frontiera posta nel punto adolescenziale si radicalizza in Sylvia nel corso del tempo e ciò si mostra nella scrittura intesa come atto privato che si pone come funzione e testimonianza dell’appello all’Altro ed anche serve a mettere il soggetto al riparo dagli effetti della mancata risposta alla domanda all‘Altro ed infine serve anche ad assorbire la pressione della domanda dell’Altro materno e sociale. Il suo obiettivo era quello di collocarsi socialmente come scrittrice senza per questo rinunciare ad incarnare altri ruoli pubblici come quello di moglie e madre preoccupata, insicura e piena di problemi rivolti alla soluzione del proprio tormento interno e sempre in cerca di un interlocutore a cui chiedere consiglio, un interlocutore Altro che la ascolti.
b) Il tradimento dell’Altro della cura e l’esperienza analitica.
«A chi posso parlare? A chi chiedere consiglio? A nessuno. Gli psichiatri sono gli dei della nostra epoca. Ma costano. E poi non accetto consigli, anche se ne ho bisogno. Mi ucciderò. Sono al di là di qualsiasi aiuto»12 .
Gli dèi sono caduti quando Sylvia è stata sottoposta per la sua depressione e per il suo tentato suicidio (agosto 1953) all’elettroshock: questa esperienza incise su quel nucleo interno, su quella zona oscura di Sylvia che lei stessa descrive nei suoi scritti come un inferno nero e caotico. L’elettroshock rappresentò per lei una morte simbolica ma soprattutto un qualcosa che forzò in modo surrettizio il valore del godimento nella sua vita, una forza inducente che la obbligò ad una sorta di nuova nascita simbolica senza essere partorita, cioè, da una donna in carne ed ossa che per giunta era anche senza nome. Di nuovo un tradimento, un secondo tradimento della sua domanda d’amore perennemente negata dall’Altro, morte simbolica che anticipa quella reale solo rimandata di qualche anno. Che relazione esiste, che relazione temporale esiste tra le due morti che la stessa scrittura del soggetto annuncia come frontiera tra l’intimità della donna e l’esteriorità della madre e della moglie? L’elettroshock fu dunque una svolta che la proiettò velocemente e a forza senza rispettare il suo tempo interno verso l’esterno-sociale con una vigoria e una forza tale che Sylvia sentì l’esigenza di collocare la sua domanda di aiuto presso un analista che interrogò il suo tormento e la sua rabbia, senza però toccare – si può ipotizzare ciò dal materiale che Sylvia ha raccolto nei Diari – quel nucleo intimo del suo esser donna; ciò che venne a forza restaurato riguardava la sua posizione di madre pubblica e la sua posizione di moglie dell’Altro (il marito Ted): non venne interrogata e ascoltata la sua voglia di scrivere, la sua creatività che le avrebbe permesso di ricostruire simbolicamente il suo e personale Altro (paterno) racchiuso nella bottiglia e in viaggio nell’oceano.
A questo punto si pone una domanda: se il suicidio è un atto che per il soggetto ha valore assoluto e radicale in quanto è una risposta definitiva ad una assenza di risposta dell’Altro, cosa si può dire del tentato suicidio che portò Sylvia poi al ricovero in un ospedale psichiatrico e alla esperienza dell’elettroshock? E’ un’esperienza anticipatoria del suicidio oppure con il suo tentativo di suicidio il soggetto pensa ancora di riuscire a formulare una domanda all’Altro che possa essere accolta? In sostanza, c’è del godimento proprio che il soggetto ancora può spendere nel suo appello all’Altro? Se Freud riteneva che il suicidio fosse un omicidio mancato si può dire che il tentato suicidio è ancora un ulteriore tentativo del soggetto di salvare l’Altro dalla responsabilità del suicidio come omicidio mancato?
In effetti, leggendo una lettera di Sylvia si può notare come la scrittura descriva con precisione il suo stato d’animo depresso che la portò a pensare al suicidio come soluzione alla sua depressione piuttosto che immaginarsi ricoverata per tanti anni in un ospedale psichiatrico e gravare sulle spalle della famiglia:
«Ben presto il mio unico dubbio era diventato quello dell’ora esatta e del metodo per suicidarmi. La sola alternativa che mi era dato vedere era un’eterna tortura per il resto dei miei genitori in un ospedale psichiatrico, perciò avrei approfittato della mia ultima briciola di libera scelta per scegliere una fine netta e immediata».
La capacità strategica e lucida permette a Sylvia di considerare l’Altro come incarnato e capace di rispondere e di considerare se stessa come un «corpo [sorprendentemente] cocciuto», votato al sacrificio della morte per salvaguardare l’Altro familiare e l’Altro sociale dal peso del suo tormento. Sylvia descrive gli attimi che precedono il suo tentativo di suicidio, descrive il messaggio, in forma di biglietto, che lascia alla madre e poi si lascia scappare, nella stessa lettera, un moto di compiacimento per i soccorsi arrivati tempestivamente dopo il suo appello rivolto all’Altro attraverso le sue «deboli grida»: «Finalmente mio fratello ha sentito le mia deboli grida e ha chiamato l’ambulanza»12.
Sylvia voleva che l’Altro sentisse e rispondesse, c’era ancora in lei del godimento vitale che il corpo registrava come suo, un godimento rabbioso e autodistruttivo agganciato, nel simbolico, alla spinta pulsionale rappresentata attraverso la domanda rivolta all’Altro.
Ma Sylvia confessa anche il suo rapporto con l’Ideale dell’oggetto d’amore perduto:
«Proprio adesso sento più di tutto il bisogno, naturalmente irrealizzabile, di qualcuno che mi ami, che stia con me di notte, quando mi sveglio in preda a brividi di orrore, di paura di quei tunnel di cemento che mi portano giù nella sala dell’elettroshock, che mi dia il conforto e la sicurezza che nessuno psichiatra può trasmettermi fino in fondo»13.
Nella Sylvia ventenne si ripete il suo rapporto immutato con l’Altro paterno, perduto alle soglie della adolescenza a 9 anni, rapporto che è il nucleo patogeno del suo tentato suicidio e del suo suicidio, nucleo patogeno che la porta a vivere la vita con una riserva, con un tarlo o come lei stessa dice con un «nonostante tutto»…il resto: «Desidero ardentemente uscire ai grandi spazi aperti nel mondo reale, caotico e pieno di pericoli che amo ancora, nonostante tutto…»14. Sylvia usa i puntini di sospensione per indicare il suo limite, la soglia come indice del suo rapporto interno con l’Altro perduto che costituisce lo sfondo ed il quadro del sua soggettività. I puntini di sospensione sono un espediente che hanno lo scopo di dire con la scrittura, che hanno lo scopo di dichiarare nel messaggio della bottiglia che è da lì che il soggetto vorrebbe essere ascoltata, mentre l’Altro della cura, l’Altro materno e l’Altro sociale, al contrario, spingono Sylvia, in modo forzato, ad abitare il caos cittadino e gli spazi sociali.
Ciò che il suicidio rivelerà sarà proprio questo “nonostante tutto” irriducibile, questo nucleo sigillato nella bottiglia alla soglia dell’adolescenza, nucleo sigillato aperto solo attraverso la parola all’analista, che non incarna per Sylvia l’Altro assoluto della cura come invece l’insieme degli dèi-psichiatri (gli “dèi” psichiatri, come insieme dell’Altro della cura, rappresentano nell’Altro sociale un punto mitico ed immaginario a cui ogni singolo individuo e dunque anche Sylvia, può guardare come mito, baluardo e estremo limite della sua propria guarigione psichica e mentale).
c) Il tradimento dell’Altro dell’amore e la questione del transfert.
La vita della scrittrice si snoda su due piani in contrasto tra loro e attraversati da una soglia, da una spaccatura: da un lato l’interno di Sylvia, sigillato nella bottiglia, confessato solo in analisi e dall’altro lato l’esterno della scrittrice, collocato nella funzione di madre-moglie-scrittrice, rappresentato nella cura dall’Altro della cura, cioè dall’insieme degli psichiatri, ed infine il versante dell’ Io-Ideale ed esterno misurato sulla identificazione alla madre reale innalzata a modello immaginario e superegoico che controlla l’investimento libidico sul surrogato dell’oggetto d’amore paterno, ovvero il marito Ted, mantenuto tale fino al tradimento con un’altra donna. Quest’ultimo tradimento, dopo quello che fa da matrice del padre morto e dell’Altro della cura, (la classe degli psichiatri) spolpa definitivamente Sylvia come lei stessa dice in una lettera alla madre in un momento di confessione: «la carne mi si è staccata dalle ossa […] Per me è stato uno shock enorme… Ero molto stupida, molto felice…senza il tempo… di fare dei programmi per me»15 .
Ciò che emerge dunque in questa frattura è che il nucleo tormentoso che si elaborava nelle poesie e nel chiuso dello studio analitico aveva un cammino separato nella realtà sociale, laddove Sylvia cercava un punto d’appoggio stabile nell’Altro sesso dal quale trarre amore e cercare una risposta alla sua istanza depressiva: la risposta analitica era per Sylvia una sorta di banchino per provare la consistenza della sua struttura, mentre il banco di prova vero e proprio era la vita dove i tradimenti si consumavano uno dopo l’altro spolpandola. Cercava qualcuno che la aiutasse a leggere se stessa e le sue produzioni poetiche piuttosto che la realtà esterna, il banco di prova con il quale costantemente Sylvia si misurava. La direzione della cura di Ruth Beuscher sembra sia stata piuttosto caratterizzata dalla interpretazione dell’angoscia come sintomo che non inganna, angoscia a cui Sylvia è ricondotta e messa di fronte tutte le volte che emerge dal profondo del passato familiare il suo rapporto perturbante con la madre o con il fratello, oppure nel presente il rapporto con Ted che Sylvia identifica con l’amato padre.
Ma quando anche il banchino analitico appunto l’ha messa nelle condizioni di confrontarsi con il banco della vita, anche quando cioè l’analista si è messo nella posizione del grande Altro diventando colui che nel transfert sa in quanto detentore del sapere e sa anche ciò che il paziente non sa o non vuol sapere, si produce un materiale nuovo agli occhi del soggetto che genera paura e angoscia in Sylvia. Ci possiamo chiedere se il transfert analitico di Sylvia abbia avuto queste caratteristiche. E’ impossibile essere precisi, possiamo fare solo delle ipotesi da ciò che traspare dai Diari e da ciò che Sylvia ha riportato e trascritto e sua madre Aurelia ha poi pubblicato postumo.
Ebbene, a partire dal materiale dei Diari si possono fare due considerazioni circa il transfert di Sylvia con l’analista; ovvero circa quel legame speciale d’amore che specifica l’incontro con l’analista come incontro che implica il livello del desiderio differenziale di entrambi:
a) Sylvia ama la sua analista ovvero sta al gioco della relazione con lei, una relazione che sembra avere le caratteristiche perverse della inclusione del soggetto, come oggetto del desiderio, all’interno dell’Altro del potere e del suo desiderio. La sensazione ricavata da ciò che Sylvia dice nei suoi diari circa il suo rapporto con l’analista è che ci sia in gioco una certa seduzione fascinosa fondata sulla gentilezza alla quale il paziente non può dire di no, non può negarsi, una presenza, quella della dottoressa Beuscher, che si fa sentire: «Ieri da R. B. ho pianto addosso la vecchia profondissima tristezza. Dice che [quando sto così male] non lavoro bene come al solito»16.. L’analista dice, sentenzia, che non bisogna piangere altrimenti non si può lavorare; il principio è di per sé giusto in quanto là dove c’è lacrima non c’è parola, ma che cosa è la lacrima se non il segno-sintomo di una crisi della domanda di aiuto che il soggetto rivolge all’Altro assoluto ma che, non potendovi parlare, si rivolge all’analista che suppone sappia ascoltarne le lamentele? Il lavoro di cui parla Sylvia era il lavoro dello scavo nel suo passato, il lavoro classico analitico sul ricordo rimosso che va appunto dal passato al presente del soggetto, un soggetto già scritto e rimosso nell’Altro, nell’Altra scena la quale ha il potere simbolico di contrastare, di far fronte ed anche di trasformare il presente in atto. In Sylvia era proprio così? Il soggetto che abitava questa scena domandava una trasformazione del presente ed un lavoro di elaborazione di quest’ultimo? Leggendo il materiale scritto si ricava la sensazione che la posizione soggettiva di Sylvia sia rimasta attaccata alla domanda che lei rivolgeva all’Altro e che questo attaccamento costituisca la frontiera che separava l’Io adulto di Sylvia, l’Io immaginario costruito sui modelli dell’Altro (sociale e familiare), dalla bambina rimasta dentro la bottiglia lanciata metaforicamente in mare: «Chiedere alla dott. B come fare a separare l’io adulto dai sentimenti circoscritti di bambina, dagli attacchi di gelosia»17 .
E’ evidente che l’Io e la bambina erano una sola cosa abitata da Sylvia ed era evidente che lei parlava dalla posizione soggettiva della bambina che domandava all’Altro paterno del suo abbandono, del suo tradimento; è evidente che la rabbia e la gelosia che Sylvia avvertiva erano indirizzate verso figure reali in carne ed ossa con le quali funzionava un legame affettivo e transferale come con l’analista o con il marito Ted, ma è evidente che è a suo padre che rivolgeva immaginariamente la sua rabbia e la sua gelosia: «Quanto a me, dopo gli otto anni non ho mai conosciuto l’amore di mio padre, l’amore costante di un consanguineo… l’unico uomo che mi avrebbe amata con costanza per tutta la vita […] Odiavo gli uomini perché non stavano lì ad amarmi come padri…»18;
b) La cura di Sylvia avanzava nel transfert con l’analista e contemporaneamente avanzava nella lateralizzazione del transfert con Ted. C’è lateralizzazione di transfert quando il transfert con l’analista è diviso in due atti: da un lato c’è l’analista che per Sylvia è un mezzo, un aiuto di chiarificazione ed interpretazione del senso della realtà del materiale portato dal soggetto in analisi, (nella cura la posizione assunta dall’analista di Sylvia che, come possiamo supporre è spinta fino all’Altro del sapere assoluto, riguarda ciò che una certa clinica post freudiana ha chiamato contro–transfert che non è altro che il desiderio dell’analista di soddisfare immaginariamente il paziente dal luogo a cui la sua domanda è rivolta), dall’altro lato c’è per Sylvia l’oggetto del desiderio che è Ted e che sposta su di sé il desiderio d’amore verso l’analista inteso come fine (oggetto d’amore) dell’esperienza analitica. Sylvia guarda all’oggetto lateralizzato come al punto Ideale da cui si guarda, e questo oggetto lateralizzato è Ted: «R. B. non mi dirà che fare: mi aiuterà a scoprire ed a imparare che cosa ho dentro e a tirare fuori il meglio (io, non lei)»19. Mentre: «Ted è l’ideale, l’unica persona possibile»20 . Così si esprimeva Sylvia sul marito prima del suo tradimento. Il processo di lateralizzazione nel transfert evidenzia la presenza reale di un terminal dell’esperienza amorosa a livello dell’immaginario idealizzato, prendendo questo terminal come l’unico luogo da dove tutta la realtà del soggetto a livello delle aspettative, delle promesse ricevute e delle anticipazioni apparisse come vera; il risultato è che il transfert con l’analista in questo caso è solo strumentale e tale strumentalizzazione produce il rischio di mantenere in vita un equivoco strutturale per il soggetto. Da un lato, infatti, la domanda rimossa e mascherata, che il soggetto rivolge all’Altro paterno idealizzato e morto, riguarda un permanente rimprovero carico di odio e di amore per una presenza che è venuta a mancare troppo presto e trova una illusoria incarnazione reale proprio nella figura del marito Ted, ideale vivente, scambiato fortemente dal soggetto come Padre: «In certi momenti lo identifico con mio Padre e quei momenti assumono una grande importanza, ad esempio nella lite alla fine dell’anno accademico, quando in un giorno tanto speciale non l’ho trovato lì ad aspettarmi, ma con un’altra. Ho avuto un accesso di rabbia furibonda. Sapeva quanto lo amo e come mi sentivo, ma non era lì» 21. Dall’altro lato questa identificazione tra il Padre morto idealizzato e Ted, ideale vivente, ha l’effetto clinico di nullificare lo statuto segnico della struttura paterna idealizzata nell’inconscio del soggetto, statuto che ha la funzione di Padre morto al di là della morte del padre reale idealizzato: un padre che, in quanto morto, l’analista può spingere, nel discorso del paziente, verso una utilizzazione simbolica delle insegne del padre idealizzato; tali insegne possono diventare veicolo di trasmissione di un sapere (il sapere sulla funzione positiva degli ideali e in special modo quello sull’Ideale dell’Io) attraverso cui costruire un ponte che si snoda tra le insegne paterne del soggetto ed il sapere già esistente e universale che può includere tali insegne paterne come sua caratteristica particolare. In questo modo si potrebbe attuare un ridimensionamento della caratteristica di assolutezza del padre morto ed idealizzato, assolutezza che lascia il soggetto in balia della gelificazione mortifera e della cecità sulla verità del suo desiderio, desiderio verso chi? Desiderio verso l’incarnato di turno che nel caso di Sylvia riguarda il marito Ted il quale rispetto al lavoro analitico svolto da Sylvia occupa come sappiamo il posto dell’oggetto lateralizzato all’interno del transfert che il soggetto in analisi sviluppa verso l’analista.
La verità sulla idealizzazione del partner, secondo Lacan, ha come conseguenza la non esistenza del rapporto sessuale, il che vuol dire che c’è un punto dove il soggetto non incontra mai il proprio partner e supponendo che sia sempre prima lui ad incontrare l’altra, qualcun(altra) che non ha scelto per prima come partner, abbiamo allora come conseguenza, come ci dimostra Sylvia, un disastroso inganno e tradimento dell’Altro partner supposto da Sylvia stessa come oggetto d’amore idealizzato, che apre per il soggetto un baratro talvolta irreversibile, anticamera temporalizzata dello spalancamento del niente precedente l’atto suicidario.
Quali effetti produsse, dunque, il terzo tradimento dell’Altro dell’Amore? Produsse un effetto di scollamento tra il padre morto Idealizzato e l’Altro dell’amore e dunque la protesta di Sylvia per l’inganno ha prodotto uno scioglimento completo dei legami che tenevano insieme la frontiera tra l’interno sigillato nella bottiglia dell’infanzia e l’esterno degli altri, ai quali Sylvia comunicava un entusiasmo che non aveva più: il padre morto era morto per sempre con il tradimento di Ted e la lateralizzazione dell’oggetto del desiderio sul marito ha la funzione di coprire, nel lavoro analitico, la verità sul padre morto reale idealizzato, verità che continua ad avere la funzione di gelificare le risorse libidinali e gli slanci che Sylvia aveva verso la vita, slanci continuamente frustrati da un irraggiungibile Padre morto e da un difettibile Padre-marito incarnato. Insomma l’Altro di Sylvia non è Ted ma il Padre morto Idealizzato che tuttavia nemmeno il transfert strumentale con l’analista, ottenuto attraverso lo spostamento laterale su Ted, come oggetto d’amore, non fa emergere del tutto nella parola del soggetto come suo statuto strutturale.
Vorrei precisare che ciò che è avvenuto nel setting analitico non è dato sapere, in quanto non siamo in presenza di un caso clinico testimoniato dall’analista, ma testimoniato solo dai dati della paziente; tuttavia il materiale riportato da Sylvia ci è utile per porre una questione clinica tutte le volte che l’analista si imbatte in un caso di depressione dove il soggetto è fortemente e tenacemente appeso alla propria domanda rivolta all’Altro assoluto, cioè al Padre morto idealizzato: all’analista può capitare di essere incarnato dalla paziente nelle spoglie del padre morto idealizzato e dunque di essere non solo l’interprete del materiale portato dal soggetto ma anche il fine dell’esperienza analitica transferale del soggetto e rappresentare così l’oggetto d’amore edipico (il padre morto idealizzato). In questo caso non c’è lateralizzazione e spostamento dell’oggetto del desiderio su un partner fuori setting ed è allora più facile rimandare all’Altro del soggetto cioè al Padre morto idealizzato; c’è più via libera a patto che l’analista si dimostri vivo, più vivo di quanto la paziente gli attribuisca, ovvero di essere più vivo del Padre morto nel rapporto di transfert: ciò vuol dire che in questi casi il lavoro di scavo nel materiale analitico del soggetto è secondario rispetto a quello invece assolutamente fondamentale che riguarda il lavoro della costruzione simbolica di un ponte tra l’interno del soggetto (l’interno della bottiglia descritto da Sylvia Plath) congelato e mortifero e l’esterno, il campo esterno del sociale dove il soggetto si mostra forzatamente vitale ma in realtà è vuoto o meglio è sottoposto ad uno svuotamento progressivo della libido e del godimento perché è tutto impegnato a sfuggire alle grinfie e al godimento dell’Altro materno che il padre morto idealizzato ha lasciato in sua balia: insomma è una continua e strenua lotta e difesa fino allo stremo per non dimostrare all’esterno e agli altri il congelamento interiore dei propri pensieri e delle proprie fantasie che si fa sentire nei momenti di solitudine, quando cioè il soggetto è da solo, potremo dire nel tempo libero e nella forma della sua utilizzazione oppure nei periodi estivi e nel periodo festivo, per esempio nelle feste natalizie. In questi momenti il soggetto è più esposto ed è più in balia dell’Altro materno, della legge Super-egoica che recita: “Non ce la farai”, “Non puoi essere felice”, ma dice anche “G(odi)”, ovvero congelati nel lago di tuo padre idealizzato… è l’unica eredità di cui hai il diritto di godere”.
La mia pratica clinica della depressione mi porta a dire che l’oggetto del desiderio lateralizzato all’interno del transfert fa da ostacolo alla cura analitica; pertanto la direzione della cura deve spingere invece la lateralizzazione dell’oggetto del desiderio del soggetto sul versante del reale del godimento ovvero sul quel versante dove il soggetto pone una questione che non riguarda tanto la sua idealizzazione mortifera e mascherata del partner, bensì riguarda le sue pulsioni sessuali che hanno a che fare con ciò che il soggetto investe del proprio godimento che va dal corpo-carne al corpo della scrittura che ancora una volta rivela l’interno di un soggetto devastato e congelato dall’Ideale dell’Altro paterno morto; questo è palese in Sylvia nell’ultima lettera che la donna scrisse alla madre il 4 Febbraio 1963 appena sette giorni prima di suicidarsi:
«Magari un giorno posso organizzare delle vacanze in Europa con i bambini… Adesso i bambini hanno più che mai bisogno di me […] Tra poco incomincio ad andare da una dottoressa, gratis, con l’assistenza sanitaria, che mi è stata consigliata dal mio dottore locale e che dovrebbe aiutarmi a superare questo difficile periodo. Tanti baci a tutti»22.
Infatti si può notare la crasi e la forzatura tra il piano immaginario per concedere all’Altro materno qualcosa (magari…) e il presente difficile espresso nella condizione miserevole esterna ed interna, nella quale ogni ideale sia definitivamente morto.
La vicenda di Sylvia Plath ci permette di porre alcune questioni che riguardano da un lato la questione femminile e dall’altro la questione adolescenziale in quanto la donna e l’adolescente sono soggetti maggiormente sottoposti agli effetti suicidari provenienti dall’Altro paterno idealizzato e morto, ma anche padre appellato, atteso e rimproverato per la sua assenza.
Il suicidio, la questione femminile e la questione adolescenziale.
Il suicidio di Sylvia è esemplare, perché condensa come atto finale una procedura iniziale, un’entrata nel regno del niente iniziato in lei a 9 anni, dopo la morte del Padre, ed inoltre testimonia l’effetto di scollamento che esiste tra il principio di realtà ed il principio di piacere che serve ad inquadrare la realtà particolare del soggetto all’inizio dell’età adolescenziale, effetto che ancora una volta Sylvia consegna alla scrittura attraverso un biglietto, che secondo Dostoevskji avrebbe reso logico l’atto suicidario rispetto ad un suicidio senza biglietto e dunque senza senso.
Sylvia attua il proprio suicidio in modo semplice, con freddezza e in modo somigliante a tanti altri suicidi di individui meno famosi di lei: «Portata la colazione ai bambini si chiuse in cucina e aperto il gas si uccise. Lasciò un biglietto che avrebbe potuto certamente scrivere in ben altra completezza: scrive solo “chiamate il dottor…”»23.
Evidentemente la penna non aveva la forza per scrivere nient’Altro e scrivere Altro, per scrivere il nome dell’Altro (Altro paterno, Altro della cura, Altro dell’Amore, Altro sociale), l’Altro che è mancato più volte all’appello del soggetto, appello che si colloca all’interno della costruzione immaginaria ed ideale di Sylvia, comunque un appello inascoltato a cui l’Altro ha risposto, in vari momenti della storia di Sylvia con l’inganno della cura (il darsi a qualcuno che non ti sa ascoltare nel punto da dove il soggetto pone la propria questione) e con il tradimento del Padre rafforzato dall’equivoco della lateralizzazione nel transfert, nella cura analitica.
Tra i 9 anni ed i 30 anni Sylvia ha fatto esperienza di uno scacco della sua domanda e questo perché vi è stato un ripetersi del suo godimento come soggetto (terza opzione della elaborazione del lutto; vedi § 1) intorno a quel sigillo nella bottiglia che ha assorbito e fissato le insegne dell’Ideale dell’Io del Padre morto: è da lì, da quel punto, che l’effetto di scollamento tra la realtà esterna di Sylvia (lei adolescente scolara che cercherà di farsi benvolere negli studi, il suo percorso di studi successivo sempre brillante, la sua realtà di scrittrice, la sua realtà di moglie e madre) ed il principio di piacere che smangia, inficia, inquadra il principio di realtà del soggetto ovvero il punto da dove Sylvia vede, vive, sente e pensa le cose esterne come madre, come moglie, come scrittrice.
La questione che Sylvia Plath ci mostra riguarda sia l’adolescente di fronte al trauma della perdita di godimento per la caduta delle insegne d’amore paterno che la sostenevano fino a quel punto della vita, sia l’identità sessuale di quell’ adolescente, ovvero di una ragazza che è chiamata ad essere in qualche modo una donna e che per essere tale chiede un aiuto all’Altro che le dia delle coordinate per identificarsi. La richiesta è legittima perché la rivendicazione del soggetto concerne qualcosa che Sylvia non è in grado di sopportare e perciò sostenere da sola, perché come fa una persona a muoversi quando il peso della colpa schiaccia il soggetto verso il basso del proprio corpo e rende pesante il cammino verso la conquista della realtà esterna e sociale? «Molti tentativi di suicidio adolescenziale seguono uno scontro con i genitori, e questo può essere utilizzato per banalizzare l’evento. In queste occasioni questi adolescenti sono pieni di rabbia e di odio, ed il loro detestare se stessi viene rinforzato»24. Con questa frase si chiarisce ulteriormente che cosa accade a Sylvia alle soglie della adolescenza dopo la morte del padre; si capisce che cosa Sylvia rimprovera al padre odiandolo per l’amore troppo presto sparito con la sua morte e soprattutto si capisce quale è la natura della domanda che Sylvia che rivolge all’Altro: “C’è qualcuno che mi possa rassicurare e difendere dalla colpa che provo per aver ucciso io…mio padre?”.
Sentiamo ancora Sylvia: «Se davvero penso di aver ucciso e castrato mio padre è possibile che tutti i miei sogni di persone deformi e torturate siano le visioni colpevoli che ho di lui o la paura che mi arrivino delle punizioni? E come placarle? Come far sì che la piantino di tramare su quello che mi resta da vivere?»25. Il padre è morto, è caduto dalle insegne ideali che lo rappresentavano, mentre la madre la incolpa per la morte del Padre, colpa che lei avverte e le procura come effetti insopportabili, rabbia e odio e ciò perché Sylvia in fondo crede alla madre e alle sue parole.
La domanda che si pone Sylvia, ma che si pongono tutti quegli adolescenti che almeno una volta hanno tentato il suicidio, che serve loro per autorizzarsi a fare questo atto, è di questo tipo: “Si può essere felici senza essere in colpa?”. E’ dunque la colpa a costituire la matrice di un atto suicidario in tutti quei casi in cui un adolescente si trova a subire suo malgrado un evento traumatico che abbia a che fare con la caduta delle insegne paterne: «Quando gli adolescenti si mostrano insostenibilmente privi di controllo vulnerabili e senza aiuto, l’idea del suicidio dà loro un senso di potere sopra le loro stesse vite ed un arma da usare contro gli altri»26. Ed è chiaro che il soggetto adolescenziale non sa bene riconoscere come colpa ciò che invece avverte come rabbia e che rivolge verso di sé per domandare all’Altro con un atto estremo le ragioni di una perdita, di un abbandono che non ha ai loro occhi ragione di esistere, ed è qualcosa di assoluto: trovare la strada per spiegare al soggetto adolescente che questo assoluto non ha un fondamento oggettivo significa aiutare a raccogliere la domanda del soggetto che si sente appeso all’Altro che è decaduto da una dimensione di iperrealtà mortifera e congelata come in un lago di sale; lo stato di congelamento è infatti uno di quei segni visibili sul corpo dell’adolescente e ascoltabili a partire dalla olofrasizzazione della parola: «Sappiamo fin dall’inizio che molti adolescenti evitano o rimandano la ricerca di aiuto per il disagio o timore di parlare di aspetti della loro vita che evocano vergogna o preoccupazione. Ma sappiamo anche che mettere in grado l’adolescente di chiedere aiuto può risultare di importanza critica per l’intera sua vita futura»27.
Per fare ciò è necessario che un operatore che lavora con gli adolescenti si assuma il rischio di una crisi, comunque feconda e vitale e non si metta nella posizione dell’Altro assoluto che poi inevitabilmente tradisce il soggetto adolescente e a questo proposito, come abbiamo potuto notare, la vicenda di Sylvia Plath risulta essere esemplare e indicativa. Invece è necessario che l’operatore sia un compagno di strada oppure un compagno di frontiera; infatti sapere abitare la frontiera ed il limite che essa comporta significa rispondere ad una questione che la stessa Sylvia Plath si pone nel suo Diario: «Come esprimere la rabbia in modo creativo?»28.
La capacità operativa consiste dunque nel rispondere a questa domanda di Sylvia, il che vuol dire trasformare il sintomo negativo, ovvero la rabbia autodistruttiva a causa di una domanda che non trova risposta da parte dell’Altro cercato e mai trovato, in un sintomo positivo dove il soggetto possa godere di qualcosa che lui stesso, con l’aiuto dell’operatore, costruisce.
Sylvia ha cercato di fare ciò, involontariamente, senza operatore, senza un interlocutore e da sola, attraverso la scrittura e ciò non è bastato a scongiurare il suicidio nonostante che l’Altro della cura (psichiatri più esperienza analitica) abbia tentato di offrirgli dei luoghi che sostenevano la sua questione; ma la scrittura unico luogo che poteva essere creativo e dunque interrogato e preso in considerazione, è stata ignorata: «Idee della virilità: conservazione del potere creativo (sesso e scrittura)»29. Di nuovo la Plath ci fornisce la sua personale soluzione rispetto a ciò che un soggetto affetto da depressione può con l’aiuto di qualcuno che lo sappia ascoltare nell’articolare proprio il sesso e la scrittura, che sono due funzioni della virilità come ci dice la stessa autrice, ma soprattutto sono due funzioni di potere. L’affermazione di Sylvia Plath apre a due questioni: 1) la prima riguarda la definizione di creatività legata alla clinica della depressione adolescenziale; 2) la seconda riguarda la differenza sessuale in relazione alla scrittura.
- Sylvia Plath parla di potere creativo che va conservato, altrimenti il rischio depressivo è consistente: il potere creativo consiste nella capacità del soggetto di mantenere salda la propria personale possibilità artistica e dico possibilità e non capacità perché non si tratta di definire il valore estetico del prodotto artistico di un soggetto, ma si tratta di coniugare il registro della verità del soggetto al potere ovvero alla dimensione del fallo o per meglio dire al fatto di essere o avere il fallo per l’Altro; differenza che designa il potere di ciascun soggetto infans in relazione alla propria personale libertà di giocare per creare la propria realtà, il proprio modo di godere e questo poter godere e poter essere o avere il fallo si situa in relazione all’Altro ed al suo potere fallico immaginario.
In sostanza ciò che afferma Sylvia Plath sul potere creativo riguarda la possibilità del soggetto infans, nel suo strutturarsi in relazione all’Altro genitoriale, di costruire uno spazio per giocare e successivamente decidere quando e come giocare a partire dall’adolescenza. Freud si chiede che cosa vuol dire creatività e risponde che è necessario cercare le tracce di essa già nel bambino, tracce di creatività poetica (creare è poetare) e in che cosa consistono queste tracce poetiche nel bambino:
«L’occupazione preferita e più intensa del bambino è il giuoco. Forse si può dire che ogni bambino impegnato nel giuoco si comporta come un poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del mondo»30.
Il potere della creatività consiste nel mettere il bambino nelle condizioni di creare-poetare, di metterlo nelle condizioni di sviluppare la sua occupazione preferita che è il gioco e per fare questo è necessario che l’Altro genitoriale e l’Altro educativo gli diano questo potere togliendo a se stessi del potere esercitato sul soggetto infans: togliersi del potere significa non invadere lo spazio mentale e fisico del soggetto infans, invasività che avviene attraverso questa domanda dell’Altro, più o meno diretta: perché non rinunci ad avere il fallo in funzione di un essere il fallo immaginario per me? Il che vuol dire che ci pensa l’Altro a soddisfare i bisogni ludici del soggetto infans: e ciò è la condizione della depressione insieme alla natura del potere fallico (immaginario o simbolico) detenuto dal padre in relazione al soggetto infans nell’edipo familiare così come abbiamo visto in Sylvia a partire dai suoi scritti.
Sylvia trova la forza di mantenere un proprio spazio creativo attraverso la scrittura che è l’evoluzione e lo sviluppo dello spazio bianco che Sylvia fissa nella bottiglia imprigionando così il gioco con il padre: ma nessuno riconobbe alla scrittura di Sylvia il valore che essa aveva, un valore “sinthomatico” (ovvero un valore che secondo Lacan implica il potere fallico della funzione paterna intesa come potere di supplenza del sintomo positivo che, in quanto tale, serve da luogotenente, a tenere in piedi, nel caso di Sylvia, il posto del padre morto idealizzato) un valore di svelamento e di ri-velazione della verità del soggetto, cioè un valore che non tendeva solo a fondare una narrazione letteraria, ma a costruire un vero e proprio documento di accusa contro l’Altro ed al tempo stesso a dichiarare il suo amore verso il Padre idealizzato attraverso la “grammatica” degli eccessi naturali, in nome ed in ricordo dei momenti passati insieme al padre sulla spiaggia bianca e chiusi nella bottiglia.
Questo non riconoscimento del valore della scrittura come sinthomo è stato sostituito dall’Altro della cura con un riconoscimento di Sylvia come individuo e persona; ciò portò la scrittrice americana alle conseguenze depressive fino “all’orlo” del suicidio in quanto venne misconosciuta la sua soggettività implicata nella rivelazione sinthomatica della scrittura. (Non è un caso che Sylvia Plath scrisse l’ultima sua poesia pochi giorni prima di suicidarsi e le dette il titolo Orlo: «La donna è infine perfetta / Il suo corpo / Morto porta il sorriso del compimento / L’illusione di una greca necessità / fluisce, nelle pieghe della sua toga / I suoi piedi / Nudi sembrano dire / Abbiamo camminato tanto, è finita»).
- La pratica della scrittura sinthomatica pone anche la differenza sessuale tra il femminile ed il maschile, differenza che Sylvia Plath riassume con il concetto di potere virile: ebbene scrivere è la forza virile-fallica della donna, è il suo godimento privato che la donna può condividere solo con chi lo riconosce: il maschile scrive le cartelle cliniche dell’ospedale psichiatrico mentre Sylvia trovò nelle cartelle cliniche degli altri pazienti materiale che la riguardava e materiale per le sue poesie. Diverso uso del potere virile fallico che storna un godimento rivolto alla propria identità sessuale fondata sul corpo: da un lato il corpo del padrone il cui discorso è fondato su un godimento che non può essere controllato come si vuole, mentre dall’altro lato il corpo della scrittura femminile di Sylvia, la scrittura diaristica ed epistolare che non le serviva a controllare niente perché il padrone doveva essere raggiunto con quella stessa scrittura e dunque la scrittura non poteva essere fondata su di lui:
«L’amore stesso, come ho sottolineato la volta scorsa, si rivolge al sembiante. E se è vero che l’Altro lo si raggiunge solo abbracciandosi, all’a causa del desiderio, è anche al sembiante d’essere che si rivolge. Questo essere non è nullo. E’ supposto a quell’oggetto che è l’a»31.
Il potere virile dell’Altro paterno, il potere fallico del padre da un lato e dall’altro il potere fallico dell’Altro materno: Sylvia è schiacciata da questa fallicità edipica e si chiede al pari di tutte le donne, come fa ogni donna, come fare ad iscriversi nella logica fallica dell’Altro aggiungendo qualcosa di suo: attraverso il suo esser madre? Attraverso il suo esser moglie? Attraverso il esser scrittrice? Sylvia prova tutte le strade spinta dal voler esser però il fallo, l’oggetto del desiderio dell’Altro genitoriale, sociale, della cura: ma l’essere il fallo non significa averlo, non significa inscriversi nella logica del potere fallico desiderando e potendo sostenere il proprio desiderio ed è invece ciò che capita a Sylvia in quanto il sintomo depressivo che la costituisce come soggetto – sintomo che implica il soggetto come zimbello dell’Altro idealizzato e della sua caduta – mette in luce il desiderio debole del soggetto di sottrarsi e di sottrarre godimento all’Altro materno e sociale per sottolineare il loro potere fallico che Sylvia avvertiva come totalmente votato ad impedirle di essere ascoltata, di essere ascoltata nella sua scrittura, intesa come tentativo personale di raggiungere l’Altro non tanto per l’ambizione di esser scrittrice, ma di essere ascoltata nel suo modo di abitare, come la bambina nella bottiglia, la scrittura rivelando così, attraverso quest’ultima, l’esser zimbello del suo fantasma che, attraverso la scrittura stessa, poteva mettere così in luce la sua sete di assoluto, la sua sete di abbracciare l’Altro idealizzato: questo è il limite di Sylvia, un limite e una linea d’ombra: «Si va avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d’ombra, ad avvertirci che bisogna dare addio anche al paese della gioventù»32. Sylvia questa linea d’ombra non l’ha mai oltrepassata e la sua domanda d’aiuto consiste nel trovare qualcuno in carne ed ossa che provasse ad accompagnarla al di là della linea d’ombra: in fondo con il suicidio si può dire che Sylvia ha smesso di domandare all’Altro e si è sottratta al potere fallico dell’Altro trovando una propria via … l’unica possibile per lei; ma al tempo stesso la stessa autrice fa della scrittura la soluzione creativa alla domanda rivolta all’Altro. La scrittura, nelle indicazioni dell’autrice, è quell’oggetto prezioso, quell’agalma (oggetto piccolo a) che serve a completare il buco della perdita del padre idealizzato in A, nell’Altro Idealizzato e che serve a sostenere così la causa del desiderio, ovvero a trarre dalla scrittura una spinta per costruire un suo proprio sapere fatto di regole grammaticali del tutto nuove (corpo scritturale) (creare è poetare); e ciò serve a dare potere virile (potere fallico inscritto nell’ordine simbolico che serve a limitare il godimento) alla sessualità con l’Altro partner (Ted è anch’esso un poeta con il quale può esser possibile per Sylvia misurarsi in una sorta di gara eccitante); insomma la scrittura funziona come ciò che permette immaginariamente di abbracciare l’Altro e di raggiungerlo … di tentare di raggiungerlo; ma nella vita di Sylvia questo dispositivo non ha funzionato del tutto, non le ha evitato il suicidio perché era necessario che qualcuno in carne ed ossa (operatore della cura) sostenesse questo dispositivo e se ne facesse il garante, ovvero che rassicurasse Sylvia sulla bontà del suo dispositivo scritturale, ne difendesse la causa ed infine stabilisse i tempi ed i limiti dell’inserimento della scrittura nel progetto di vita di Sylvia.
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Articolo apparso su Notes Magico. Annuario del Centro di Ascolto e Orientamento Psicoanalitico, n.2, Clinamen, Firenze, 2001, pp. 7-35.
2 J.Lacan Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino 1978 p. 177.
3 AA/vv. La funzione paterna, Borla, Roma 1995 pag 85.
4 Da “Sylvia Plath in immagini e parole”, Rispostes, 3 Salerno-Roma,1966, p.9.
5 Op. cit: p. 6.
6 S. Plath, Diari, Adelphi, Milano 1998, p. 335.
7 S. Plath, Lettere alla madre, Guanda, Parma 1979, cit. pp. 23-24.
8 Op. cit. p. 325.
9 Op. cit. p.325.
10 Op. cit. p.325.
11 Op. cit. p. 325.
12 Op. cit. p. 87.
12 S. Plath, Lettere alla madre, p. 93.
13 Op. cit. p.93.
14 Op. cit. p. 93.
15 Op. cit. p. 290.
16 S. Plath, Diari, Adelphi, Milano 1998 p. 351.
17 Op. cit. p. 349.
18 Op. cit. p. 320.
19 Op. cit. p. 324.
20 Op. cit. p. 381.
21 Op. cit. p. 333.
22 S. Plath, Lettere alla madre, op. cit. p. 317.
23 AA/vv, Sylvia Plath: In immagini e parole, Ripostes, op. cit. p. 25.
24 M. Laufer (a cura), L’adolescente suicida, Borla, Roma1998, p. 63.
25 S. Plath, Diari, op,. cit. p. 357.
26 M. Laufer. op. cit. p. 64.
27 Op. cit. p. 12.
28 S. Plath, Diari, op, cit. p. 326.
29 Op. cit. p. 326
30 S. Freud, Il poeta e la fantasia, in Opere, vol. n° 5, Bollati Boringhireri, Torino, p. 375.
31J. Lacan, Il Seminario. Libro XX, Ancora, Einaudi, Torino 1983 p. 91.
32J. Conrad, La linea d’ombra, Oscar Mondadori, Milano 1999, p. 9.
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