Jimmy Villotti
Faccio quello che posso!
Intervista di Pierluigi Sassetti
Vorrei farle qualche domanda riguardo alla sua passione per la musica, per la chitarra e soprattutto per il jazz.
Ti dico subito che sono nato come chitarrista rock. Quando ho iniziato sapevo soltanto tre accordi, ma poi ho fatto l’esperienza nelle sale da ballo e con i cantautori per circa quindici, vent’anni. Mi sono avvicinato al jazz un po’ tardi perché si è trattato di una passione che inizialmente era un po’ velata, messa da parte, ma negli anni, con lo studio continuo, gli approfondimenti, mi sono avvicinato al jazz. Questo è accaduto verso la metà degli anni novanta.
E la chitarra?
Ad essere sincero, non si è trattato di amore verso l’oggetto neppure in senso musicale. La chitarra è lo strumento principale che è sempre servito per accompagnare le performance di tutti quelli che facevano rock, da Bill Haley a Eddy Cochran. Insomma, nella musica per uno che ama il rock la chitarra è uno strumento che va da sé. Al tempo stesso era un ottimo strumento per uscire da un certo tipo di grigiore. Calcola che siamo negli anni cinquanta e la vita era molto diversa; non è come adesso che è tutto documentato, tutto fruibile, tutto a portata di mano. Allora non c’era niente, non c’era neanche lo strumento. Quindi, partendo dalla passione per la musica rock mi sono come avvicinato alla chitarra perché era lo strumento più alla portata.
Lei è autodidatta?
Sì.
Ha fatto tutto da solo, non ha mai frequentato scuole, maestri?
Sì, qualche maestro l’ho avuto, ricordo che andavo a lezione da qualche maestro all’inizio, ma roba di qualche mese, non di più, niente di serio. Non si può parlare di scuola vera e propria. Poi allora i maestri di chitarra non erano specializzati come adesso, ti facevano la figurina dell’accordo con lo stampino fatto a forma di tastiera della chitarra, qualche pallino e imparavi gli accordi, imparavi qualche accordo, ma non è che capivi il meccanismo della musica e tutte le altre cose. A quelle ci sono arrivato grosso modo da solo, col tempo, con l’esperienza.
Una curiosità, se mi è concesso, lei nasce prima come cantante o come chitarrista?
Mah! Allora, un tempo si diceva cantante-chitarrista, ed io cantavo rock accompagnandomi con la chitarra. Poi, andando avanti nel tempo, è chiaro che, non essendo neanche un cantante, quando iniziai a suonare nelle sale da ballo, iniziai a specializzarmi più sulla chitarra.
Le sale da ballo…
Sì, c’erano le sale da ballo, ci suonavano i gruppi come le orchestre.
Lei ha sempre pensato di fare il chitarrista o ha avuto anche qualche alternativa come lavoro?
No no! Ho sempre pensato di suonare, di suonare, di entrare nel mondo della musica. Ho sempre voluto fare questo.
Giusto per precisare, si può dire quindi che il suo desiderio di fare musica più che dalla musica in generale o dalla chitarra, nasca proprio dal rock?
Certo, ma direi che grosso modo le due cose si compenetrino. La chitarra, effettivamente, come strumento per un giovane, specialmente in quegli anni là, sembrava lo strumento che poteva darti qualcosa. Prima di mettermi a suonare lavoravo, facevo il magazziniere, cose così, e il pensiero di avere una chitarra fra le mani e stare su un palcoscenico voleva dire uscire da un certo tipo di grigiore della vita, dalla quotidianità.
Una quotidianità in cui non accade niente.
Esatto, quindi era lo strumento che ti poteva permettere un qualche tipo di salto di qualità, anche minimo, ma ti poteva permettere di crescere e conoscere. Insomma, per lo meno non andavi a lavorare, non so se è chiaro questo concetto. Per dirti, non è che io fossi trafitto dalla forza delle note o da un’applicazione sullo strumento estremamente specialistica come fanno adesso che c’è una specializzazione stupenda verso lo strumento. Allora non c’era niente, ma c’era la chitarra: questo strumento in legno pieno di bottoni, lustrini, cose che luccicano e così via, e ti dava la possibilità di entrare in un mondo nuovo, dove la musica muoveva molte cose, molte realtà. Ma non è che sentissi l’attrazione o una grande passione per la musica, questo te lo devo dire francamente. Non so se sono stato chiaro.
Chiarissimo. Le volevo chiedere: iniziare a suonare negli anni cinquanta era una cosa dura oppure era molto più facile di oggi?
Ho cominciato a suonare alla fine degli anni cinquanta nelle salettine di periferia dove, con tre o quattro accordi si facevano le canzoni in voga in quell’epoca. Canzoni che a contarle saranno state una decina ed erano quasi tutte rock n’roll: Be bop a lula, Tutti frutti, poi Little Richard. C’era un pezzo che allora andava e si chiamava Ventimila leghe fatto dai Fenderman, ma cose estremamente ridotte, estremamente ridotte..
Ma di fascino sicuramente..
Non è che si possa parlare di stile, di passioni sfegatate, non direi così.
E allora come è avvenuta la sua conversione al jazz?
Devo dire che già dalla fine degli anni sessanta sentivo un vago richiamo verso il jazz, perché era una musica molto più complessa, che poteva dare qualche argomento in più, richiedendo impegni e decisioni. Ma non avendo mai avuto un maestro e non essendoci maestri adatti per quello che volevo fare io, e non essendoci neanche strumenti tecnici come ci sono oggi per poterlo approfondire, mi affidavo unicamente all’orecchio e ai pochi dischi che potevo procurarmi. Quindi è stata certamente un’esperienza, definiamola così, ma comunque limitata verso il jazz. Dopo l’esperienza cantautorale, quando mi sono messo a studiare il jazz in modo più approfondito, allora ho cominciato a capire quali erano le alchimie e tutti gli sviluppi che legano questa musica.
Questa domanda è importante per me perché avendo assistito ad un suo concerto l’ho vista suonare cose di Thelonious Monk, ma soprattutto parlare molto di Thelonious Monk, una cosa che mi ha fatto intuire come in lei ci fosse una passione importante per il jazz ma soprattutto verso questo musicista.
Ma io adoro Thelonious Monk! Ho suonato anche il pianoforte per dieci anni per imparare un pochettino il suo modo di mettere gli accordi, la sua tecnica. Una cosa che poi ho anche un po’ trasmesso sulla chitarra.
Ma ha imparato a suonare anche il pianoforte da autodidatta?
Certo!
Per imparare i brani di Monk?
Certo!
Che meraviglia, una cosa direi rara…
Sempre tutto fatto un po’ così, come potevo, però veramente ho studiato Monk per anni, più di dieci.
E perché ama così fortemente Monk?
Per la sua originalità. Devi pensare alle sue composizioni, quando negli anni cinquanta incominciò a scrivere quella roba lì era una cosa mai sentita. Amo tantissimo un disco di Thelonious Monk con Charlie Christian, una registrazione degli anni quaranta. Comunque lui è stato un esponente del Cool jazz, di una originalità assoluta, che poi prese un pochettino lo stile di Duke Ellington e un pochettino lo arabescò, però un autore estremamente prolifico e originale.
Originale lo è anche lei Sig. Villotti …
Faccio quello che posso! Scrivilo bene: faccio quello che posso!
In tutta onestà, non mi era mai capitato di assistere ad un musicista che più che suonare, si mette a parlare così appassionatamente di uno dei musicisti che più ammira.
Ma no, ma no… è perché mi piace parlare e allora…
Ma è stato così semplice?
No, non direi. Questa musica si porta dietro anche tanti momenti bui, tanti momenti di difficoltà. Quando ho iniziato a studiare ero già avanti con gli anni e quindi ho fatto molta fatica ad apprendere bene. Non ti nascondo che ci sono stati momenti in cui ho anche maledetto questa musica, ma che cosa vuoi farci? Quando ce l’hai nel sangue ce l’hai nel sangue…
È la cosa più difficile … mica si può mettere da parte?
Eh.. sta buono va…
La ringrazio signor Villotti, la ringrazio veramente…
Non mi chiamare “Signor Villotti” che mi sembra di avere cent’anni… chiamami Jimmi.
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Intervista realizzata il 20 luglio 2016
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