La genitorialità – L’amore materno

 In Etica, La genitorialità
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di Alessandro Guidi

 

Guidi: qualche domanda, qualche chiarimento?

Domanda: da un punto di vista della responsabilità dei ruoli, può un genitore supplire all’altro?

Guidi: è una delle condizioni di ostacolo. Spartirsi i compiti in modo non adeguato aumenta il senso di onnipotenza o di inadeguatezza di ognuno dei genitori e ha come conseguenza una disistima da parte del bambino. Disistima. Può quindi un genitore supplire l’altro? No, no! Non si può. Perché? Perché una coppia genitoriale che funziona è fondata su qualcosa che funziona, e per funzionare un rapporto uomo-donna, è necessario che ci sia una relazione eteronoma che non è scambiabile. Il padre non può fare la madre, il mammo, così come la madre non può fare il papà, perché o omologhiamo le funzioni e tutti e due fanno la stessa cosa, oppure uno fa due ruoli e l’altro non ne fa neppure uno. Ogni genitore deve adempiere al proprio ruolo.

Intervento: sì, è vero, ma mi riferivo a un soggetto che sopperisce alla madre. Se quella funzione …

Guidi: se il padre fa la madre, non può fare il padre, e bisogna che qualcun altro lo faccia.

Intervento: no, no, certo, ma pur rimanendo nel campo della legge del padre, e dato che è lui il testimone del desiderio perché la madre non ce l’ha, allora mi chiedevo se solo il padre in quanto testimone del proprio desiderio può avere un rapporto funzionale con il funzionale affinché possa crescere desiderante.

Guidi: è una domanda un po’ metafisica, perché non si capisce bene a quale età del bambino si riferisca …

Intervento: collochiamola ad esempio tra gli zero e i due anni. La madre non è desiderante, ha messo al mondo questo bambino e dall’altra parte c’è un padre desiderante nei confronti del quale la madre ha stima, definiamola così, un amore … questo uomo è depositario di un ipotetico desiderio. Mi chiedevo se pur continuando a fare il padre possa intervenire e non supplire nei primi anni di età, cercando di …

Guidi: nei primi anni di età la funzione dell’uomo, del partner è quella di sostenere la madre nelle difficoltà che possono esistere dopo il parto nel rapporto con il figlio. Cioè deve sostenere il desiderio della madre che può magari essere messo in crisi. Se il partner sostiene la compagna, e, attenzione, questa decrescita del desiderio della madre si inserisce in una donna già non desiderante, è questa la cosa che non potrà essere sostenuta dopo il parto. Il partner può solo sostenere il desiderio in una compagna che è desiderante e che adesso momentaneamente non lo è. Sciopera, è in malattia da quel punto di vista. Questa è una delle grandi trasformazioni, dei grandi guai che mettono in crisi la coppia, all’interno della quale l’uomo rimane sempre uguale, come fissato sul suo oggetto del desiderio, mentre la donna è impegnata altrove con le sue energie. Se il padre non capisce questo è un problema. L’uomo deve intervenire in questo periodo a sostegno della donna nella sua nuova fatica di esser madre.

            Poi, quando il bambino inizierà ad entrare nella terza fase dello stadio dello specchio, coincidente con la prima fase edipica, allora comincia a manifestarsi il padre reale e il bambino lo considererà come presenza “altra”. Questo è un momento in cui il padre può iniziare qualcosa, ad esempio nello stare a tavola.

Intervento: sospettavo questa cosa …

Domanda: verso che età il padre può iniziare il suo intervento?

Guidi: verso i due, tre anni. Bisogna tenere presente che nella cultura moderna, nella cultura sociale, i bambini oggi vanno quasi tutti all’asilo nido, il che è un dramma, una cosa drammatica. I primi tre anni la madre deve essere messa in condizione, anche da parte dello Stato, a sostenere un atto come questo, e non costringerla a mandare un bambino all’asilo. No! La scuola materna è un altro discorso, ma i primi anni sono gli anni del bambino con la sua famiglia, della crescita in famiglia, di un rapporto fatto di sostegno, stima, amore. Dal mio punto di vista i bambini vengono gettati troppo presto nel calderone sociale della scuola, con tutti gli operatori di dubbia etica che son lì soltanto per prendersi lo stipendio. Operatrici e operatori che su dieci soltanto due, se siamo fortunati, hanno veramente un’etica professionale forte e autentica. Poi, con la burocrazia scolastica che distrae, che allontana da un sostegno permanente e genuino, la cosa s’incrina ancor di più. È un disastro, ma questo è un altro discorso.

Domanda: non c’entra niente con la psicoanalisi però riguardo a questo famoso senso di sopravvivenza della specie, il fatto di mettere il figlio al primo posto non mi pare una cosa del tutto insana, perché si pensa alla sopravvivenza, perché si mette il figlio al primo posto ma al tempo stesso si mette anche la sua specie, se stessa, la sua continuità. Non riesco a vederla come una cosa completamente insana perché un conto è mettere il figlio al primo posto perché c’è della perversione, altra cosa è dare un valore come continuità della specie…

Guidi: sì, ma il valore come continuità non significa metterlo al primo posto, ma dargli un posto.

Intervento: questo sì …

Guidi: un posto certo, ma non il primo. Il punto è che non siamo animali. Nel campo dell’uomo, come ho detto prima, il bambino non mangia solo oggetti, non si nutre solo di latte ma anche di parole. La questione è parlare e dire le cose giuste, è così che tu lo valorizzi e lo metti al posto giusto per portare avanti il discorso della specie umana. Infondergli ciò che caratterizza l’uomo in quanto tale, ovvero la parola, non altro. La biologia, nell’uomo, è secondaria rispetto all’animale per il quale è primaria. Questa differenza va rispettata, se non c’è questa logica differenziale si rischia di prendere una strada sbagliata pensando che l’amore materno coincida con il nutrimento. No, perché mentre la madre nutre, fa tante altre cose contemporaneamente, svolge una funzione simbolica, sviluppa una relazione erotico-affettiva che riguarda la madre inconsciamente. Quindi se non c’è questa conoscenza del proprio atto, del perché e del percome, il rischio è che l’atto che si realizza verso un bambino sia ingannevole, distorto. Ma tutto questo per valorizzare il bambino, affinché sia migliore di noi, non è assolutamente una svalorizzazione del bambino il non metterlo al primo posto. L’importante è metterlo in un posto che gli è proprio, e non diversamente.

Domanda: devo dire che spesso la parola c’è, ma pare un linguaggio che infantilizza ancora di più il bambino, che non lo porta nel mondo. Non è il linguaggio di tutti, è il linguaggio della madre con il bambino …

Guidi: sì, ma il rispettare l’età del bambino, non fare del bambino un adulto è un’altra regola fondamentale. È necessario parlare con il bambino, parlare con un linguaggio adeguato a lui, che non sia emotivamente troppo forte o incomprensibile, ma che sia capibile, adeguato. Questo è importante. Perché i bambini adulti si bruciano, come Mozart che a tre, cinque anni già creava musica sotto l’influsso di un’autorità paterna oppressiva. Perché questo? Perché una vera e propria infanzia, Mozart, non l’ha avuta. Quindi i bambini vanno trattati come bambini.

Intervento: certamente, ma il dirgli: “Vieni, ti do il pappo!”. Perché non dirgli pane? Per lui non cambia niente …

Guidi: è vero, è bene dirgli “pane”, non “pappo”, su questo sono d’accordo, bisogna chiamare le cose con il loro nome. Un’altra regola fondamentale, che nessuno rispetta, è quella del nomignolo. Quando si mette un nome al proprio figlio, non lo si deve accorciare. È terribile mettere un nome e poi cambiarlo. Nella cultura ebraica dalla quale poi è nata la psicoanalisi, c’è tutto un insegnamento importante sulla questione del nome. “Nome” vuol dire legge, nominare le cose vuol dire definirle per quelle che sono. Il genitore troppe volte non rispetta il nome che ha dato.

            Poi, già che ci siamo, diciamo che il bambino viene trattato, nella parola dell’adulto, come un oggetto di possesso. Le madri che ad esempio dicono: “Mio figlio non mi mangia”, “Mio figlio non mi studia”. Questo “mi” possessivo, va bene per l’oggetto, ad esempio: “Questa sedia mi appartiene!”, ma non certamente per un essere umano. Quando il soggetto è ridotto a oggetto non va bene. Ieri sera, una madre, durante una seduta mi ha detto: “Sono andata a letto con mio figlio”. L’unica cosa che ho potuto consigliarle è stata quella di pensare a ciò che aveva appena detto. Tutto questo porta degli effetti nell’adultità che sono specifici. Siccome l’inconscio è strutturato come un linguaggio, allora la parola, la lingua, quello che dico, implica anche una posizione soggettiva rispetto all’altro. Questo “mi” indica appunto il senso del possesso della madre sul figlio, il suo sentirlo un suo oggetto di godimento. Oppure ad esempio il dire: “Non mangi niente!”, questo non mangiar niente, nell’anoressia, spesso, fa sì che poi accada che la futura anoressica si identifichi con questo “niente” offerto dalla madre. Siccome il niente è il fondamento della domanda d’amore, ci si identifica in questo niente per farsi oggetto della domanda d’amore che non c’è stata. Quindi l’anoressica rimane lì, non mangia nulla e si pone nella posizione di niente, di sottolineatura della domanda d’amore che non c’è stata, una domanda d’amore non soddisfatta. La madre pensava che l’amore potesse essere il cibo, l’oggetto, e come troppo spesso accade, dopo il cibo, dopo l’oggetto non c’è più niente. L’anoressica, identificandosi con il niente, non mangiando, dimostra invece che l’amore è un’altra cosa, che la sua domanda è altra, e che la madre non l’ha capita. Questo è il meccanismo dell’anoressia primaria.

Domanda: lei ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere, ovvero che il perverso si fa oggetto del godimento dell’Altro, mentre lo psicotico è l’oggetto del godimento dell’Altro. Volevo appunto chiederle: ma la madre in questi casi se lo è “mangiato” il bambino?

Guidi: nel secondo caso sì. È il bambino che si fa oggetto ingannatore. Ma andiamo per gradi. Nel primo caso, nel caso della perversione, il bambino pensa o crede che facendosi oggetto possa soddisfare l’Altro, ma in questo è la madre che lo porta a credere ciò. Si tratta quindi di una complicità perversa. Mentre nel secondo caso la madre mangia completamente il bambino.

Intervento: il bambino non è complice in questo caso?

Guidi: no, nella psicosi c’è proprio una rottura verso la vita, il bambino si lascia mangiare dalla madre completamente senza identificarsi nell’esca. Nella psicosi c’è proprio una volontà della madre di divorare l’oggetto-bambino, di non permettergli neppure di parlare o di giocare. Qui ci sta tutta l’immagine della madre-coccodrillo che mangia il bambino e non permette a nessuno di metterle un bastone in bocca in modo da impedirle il divoramento. Tutto questo la madre lo fa piangendo, e questo bastone è appunto il fallo. Cioè il fallo è questo specchietto per le allodole per cui il bambino ingannatore si identifica al fallo, nella perversione, mentre nella psicosi non si identifica neppure nel fallo, ciò che manca immaginariamente nella madre viene mangiato direttamente. La differenza tra perversione psicosi è questa.

Intervento: tirando le somme, quindi, ciò che conta è il desiderio, la consapevolezza del desiderio e la verbalizzazione del desiderio per il bambino. Giusto?

Guidi: certo, un bambino che ascolta dalla madre parole desideranti e contemporaneamente sente che la madre è lì a testimoniare qualcosa di importante di sé. È come se il bambino comprendesse che si trova tra le braccia di una madre che desidera e che gli racconta l’essenza del suo desiderio. Ma al tempo stesso capisce che non è lui a doverla soddisfare e questa è una grande liberazione. Contrariamente a quanto si possa pensare è una grande liberazione perché l’oggetto del desiderio della madre sta altrove e questo permette al bambino di essere desiderante, di possedere un suo desiderio autonomo. Questo è il punto!

Domanda: e se ad esempio si trattasse di una madre casalinga che si occupa unicamente dei figli, che ha pochi interessi, che non si occupa di niente tranne che dei figli, tranne che del proprio marito?

Guidi: fa da spalla al proprio marito, parla del proprio marito.

Intervento: e quando le muore il marito?

Guidi: una madre che quando il bambino sta in casa e non va all’asilo, si mette lì con lui a fare i lavori domestici, così il bambino ha la possibilità di giocare, di stare lì. Il bambino, anche se si trova in un’altra stanza, sente la presenza della madre, avverte la sicurezza di questa presenza. Poi il padre torna dal lavoro …

Intervento: sembra la pubblicità del Mulino Bianco …

Guidi: certo, ma è la pubblicità che si appropria di questa verità, e non dobbiamo vederla come negativa solo perché proviene dalla pubblicità. Ho conosciuto molte realtà come questa e, dal mio punto di vista, significa che se c’è una possibilità che funzioni, vuol dire che il modello può funzionare. Venendo al discorso del padre che muore, che tu hai chiesto, è una situazione in cui c’è tutta l’elaborazione del lutto, della morte del padre. Il padre, vive sempre anche se muore, perché ha un posto lì, nella famiglia, anche se non c’è più concretamente perché è morto, ed è un posto che nessuno potrà togliergli. Il padre morto non c’è fisicamente ma c’è eccome!

Domanda: e se c’è una donna che vive solo per quel desiderio? Cosa accade se perde il compagno?

Guidi: le donne desideranti riescono a farsi un’altra vita, a trovare un altro compagno, perché la cosa fondamentale è il desiderio, non il compagno. Se non c’è più il compagno si realizza un’operazione di elaborazione del lutto, di vedovanza, e nasce la consapevolezza che nessuno potrà togliere a questa donna il ricordo, le sensazioni vissute con il proprio compagno morto. Ma la vita continua, prosegue impietosa, e se il compagno viene a mancare è legittimo trovarne un altro. Ciò non significa sostituire il precedente, che avrà sempre un posto come padre del figlio e come uomo della madre, ma è possibile avere un’altra storia d’amore con un altro compagno, perché è il desiderio quello che conta. Desiderio che non si spegne. Oppure, come diceva Jacques Lacan: c’è il godimento della vedova che non finisce mai.

Intervento: appunto …

Guidi: ma è godimento, non desiderio … e la differenza tra godimento e desiderio è chiara: “Godo della mia vedovanza e quindi tutti i giorni vado al cimitero, mi costruisco l’altarino in casa e così via”. In questa posizione tutto il contesto sociale sostiene e aiuta dicendo, ad esempio: “Poverina”. Il desiderio è altra cosa, è un dispiacere che pian piano si assorbirà mediante un’elaborazione del lutto, ma il compagno che non c’è più avrà sempre il suo posto nella vita di questa donna il che non significa che non ci sia un posto altro per una nuova possibilità.

 

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