Nicola Mingo

 In Interviste
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“A Partire da Wes Montgomery … … …”

Intervista di Pierluigi Sassetti

 

L’accademia?

No, non ce l’ho con l’accademia. Io sono un musicista molto accademico. Ho studiato in conservatorio. Però sono consapevole che non tutto si può risolvere con l’accademia e con l’accademismo. Ci sono musicisti che non riuscirai mai a comprendere se li analizzi con parametri accademici. Uno di questi appunto è Wes Montgomery. Per capire Wes è necessario uscire dall’accademia. Wes era autodidatta, ne sapeva di armonia, ne sapeva di chitarra e di come si suona, ma secondo me era un musicista che aveva suonato tanto, ma veramente tanto. Non è certamente stato uno studioso dello strumento come John Coltrane. Coltrane si comprende perfettamente che se ne è stato per molto tempo a buttare giù armonie e tabelle. Ci sono dei video che mostrano Coltrane che una volta messo davanti ad uno schema armonico fa qualcosa che sembra più un esercizio, esercizio che poi diventa una grandissima produzione musicale. Lui era molto matematico: il triangolo, il tritono e tutta quella roba lì. Insomma, detto in parole molto ma molto semplici, Wes Montgomery semplificava mentre Coltrane complicava. La musica all’ascoltatore può arrivare o non arrivare e sia Wes che Coltrane arrivavano all’uditore, ma mediante strade diverse, modi diversi, approcci diversi. Coltrane non è un ascolto facile, ci si arriva per gradi.

Se ci si arriva.

Giusto, se ci si arriva.

Poi Coltrane aveva tutto il suo approccio religioso alla musica.

Quel periodo lì, il dopo Giant Steps, come Ascension è certamente una musica più articolata, più difficile.

Certo.

Insomma, ben venga l’accademia, che è importante, però il risultato finale deve essere sempre la musica che produci.

Wes Montgomery è sempre stato accusato di essere una persona anche un po’ ordinaria, per il fatto che non fosse inserito nel cliché dell’artista a tutti i costi.

E secondo te questo è un valore o una pecca?

Secondo me questo è un valore!

È certamente un valore, perché era un uomo che viveva bene la sua vita e la sua musica. Dietro allo strumento c’è sempre l’uomo e tu quando suoni esprimi tutto te stesso.

Musica come mestiere.

Musica come mestiere come tutti gli altri mestieri, certo. Ma c’è il problema che Wes Montgomery non era un mestierante come tutti gli altri. Wes aveva qualcosa del genio sicuramente. Sono quelle cose particolari che ne nasce uno su chissà quanti.

Ti chiedo questo perché spesso, nel mio lavoro mi imbatto in un considerevole quantitativo di luoghi comuni che appartengono impropriamente alla musica, come gli stupefacenti necessari per l’ispirazione artistica e così via, dai Beatles in poi…

Sì, questo è tutto il contorno, ma non è la sostanza.

Franco (Cerri) mi dice che fare il musicista è come fare un mestiere come un altro.

Ma poi la sostanza non è l’apparenza, il look, l’immagine. Quello che conta è la musica che produci, quello che resta della tua musica. Wes ancora oggi è considerato qualcosa di straordinario. Anche ai bambini piace Wes Montgomery. Significa che il suo messaggio era positivo. Il discorso degli stupefacenti esiste nella musica, lo stesso Charlie Parker lo chiariva: “Non crediate che se vi fate di eroina suonerete meglio”, sfatando questo mito del “genio e sregolatezza” che poi era lui stesso. Insomma pensiamo a suonare e non a drogarci. È completamente sbagliato questo concetto che un musicista geniale debba essere per forza qualcuno totalmente al di fuori della realtà.

L’eroina acuisce il disagio e niente di più.

Acuisce il disagio e ti frega perché crea dipendenza. Non ti apre ad altri mondi, può diventare solo la tua dannazione. Tornando a Wes, quando lo vedi suonare a tratti ti sembra un principiante, Hendrix anche. Ho notato spesso questo tipo di approccio nei musicisti di colore. Per quanto oggi ci siano musicisti come Winton Marsalis che sono il non plus ultra dell’accademia, oggi vedi molti musicisti impostati. Ma se tu osservi i musicisti di colore del passato come ad esempio Erroll Garner e come metteva le dita sul piano, ad esempio, vedi una semplicità disarmante, qualcosa che un musicista tecnicamente impostato non farebbe mai.

C’è un punto nel film di Woodstock in cui si vede Hendrix contare i tasti.

Vedi! In questo ci vedo Wes, in un approccio puramente istintivo, quasi privo di un calcolo tecnico specifico ma unicamente musicale.

Me lo ha detto Stefano Zenni, ovvero che gli artisti puramente istintivi, una volta che finiscono la loro vena creativa se non si sono saputi evolvere, anche studiando, non offrono nient’altro.

Non esce più niente, è vero. Però è anche vero che nel loro momento creativo più profondo riescono a tirare fuori delle cose che con l’accademia non ci arriveresti mai, neppure a pensarle.

Personalmente sono molto antiaccademico.

Io non sono antiaccademico, ma sono per quel tipo di accademia che ti consente di avere un bagaglio personale per l’espressione.

Il che è veramente difficile.

Molto difficile.

Per quanto mi riguarda anch’io ho studiato chitarra classica fino all’ottavo anno di conservatorio, ma la cosa mi veniva spiegata in modo tale che non riuscivo a capire che cosa stessi facendo, che cosa ci fosse alla base della musica che mi veniva chiesto di eseguire.

Questa è la stessa esperienza che ho avuto io. Mi sono studiato di tutto: Sor, Giuliani, Carcassi, Villa Lobos. Ci siamo passati tutti. E perché? All’epoca, quando eravamo studenti, la preoccupazione dei nostri genitori quale era? Era quella di avere un “titolo”, una certificazione insomma, un diploma. Loro non cercavano tanto il grande artista, ma più volentieri il diplomato. E noi che potevamo fare se non iscriverci al conservatorio e suonare musica classica? Che poi, a dirla fino in fondo, sono situazioni che accrescono anche un certo malumore in famiglia, iniziano i conflitti quando chiarisci a tuo padre e a tua madre che vuoi fare il musicista. E allora, per fare qualcosa che sia una mediazione vai al conservatorio e inizi a fare chitarra classica, pur amando Wes Montgomery o George Benson. Comunque, ad essere onesti, il conservatorio una cosa me l’ha data, ovvero la disciplina, il modo di studiare la musica classica che poi puoi riportare nel jazz. Per esempio come impari un brano di Sor ti puoi leggere un brano di Joe Pass.

La differenza è che nel jazz lo spartito è vuoto, nella musica classica è pieno.

Nella musica classica lo spartito è quello e non si discute, non puoi cambiare una virgola. La musica classica ti porta verso una rigidità che poi alla fine non ne puoi più e ti dici: “Ora basta, voglio suonare!”.

Non ne puoi più.

Bravo, e in questo senso è propedeutica.

Ti esaspera.

Certo. Più ti esasperi e più hai voglia di suonare e magari prendere altre strade.

 … che tristezza …

Prendi Keith Jarret. Jarret è un esempio di accademia, si sente in lui l’approccio classico. Eppure quando improvvisa ascolti la sua libertà, la sua istintività che non ha niente a che fare con la musica classica.

Jarret è americano e lì c’è tutto un altro approccio.

Io non credo che se nasci a Roma non hai le medesime possibilità di esprimere il tuo potenziale come se tu fossi nato a New York.

Non in questo senso, ma come approccio alla musica, come humus culturale, come logica musicale nella quale cresci. In fondo il jazz lo hanno inventato loro.

In questo senso sono d’accordo, il back ground musicale che hanno loro è tutta un’altra cosa rispetto al nostro.

È una cosa che manca.

Quando ho iniziato il conservatorio ricordo il metodo per chitarra, le scale di Segovia, il metronomo e la chitarra. Quello era lo studio, ma poi per suonare facevo altre cose, ovviamente, suonavo jazz.

Il mio sogno didattico sarebbe quello di iniziare con il jazz e poi arrivare alla musica classica.

Sarebbe molto bello, ma ci vuole molta disciplina e molta maturità.

L’errore è che non puoi arrivare a Bach, capire Bach solo e unicamente mediante gli studi classici. Bach te lo gusti se ti avvicini al suo pensiero, al suo modo di pensare la musica e capisci le alchimie armoniche che stanno alla base dei suoi brani. Ma per fare questo devi per forza di cose improvvisare e non imparare a senso unico.

Paradossalmente comprendi Bach se ti avvicini a Charlie Parker.

Esattamente. È inutile studiare il famoso Preludio in re minore se non sai, se non conosci quello che è il meccanismo di fondo di un brano come quello.

Infatti, se tu hai studiato certe cose di Charlie Parker ci ritrovi Bach.

Lo studio classico è troppo un imparare a pappagallo, c’è troppa scuola media e poesia del Carducci da imparare a memoria. A me, al conservatorio di Firenze insegnavano così.

Il problema è l’approccio, perché i chitarristi classici, quelli che insegnano, hanno ricevuto questo tipo di lezione dai loro maestri e a loro volta la propongono a te. Nel jazz c’è una libertà che ti permette di conoscere di tutto e di più, per questo poi entri meglio in certi meccanismi musicali. Il jazz è creativo anche nello studio (e dovrebbe essere così), non puoi blindarlo in certi parametri. Se iniziamo a progredire didatticamente mettendo limitazioni, iniziando a considerare come un errore ciò che un errore non è, allora è finita. La musica così non progredisce più.

Bravo. Dico di partire da studi di matrice jazzistica per arrivare alla musica classica in modo da gustarmi di più i movimenti, le intuizioni e le invenzioni di Bach. Senza una conoscenza viva del linguaggio musicale (che personalmente ho tratto soltanto dall’impostazione jazz) non si può arrivare a comprendere la bellezza dell’invenzione del pensiero musicale e tutto si limita a quello che in termini musicali viene definito con il semplice concetto di “passaggio” e niente di più. In certi casi non si tratta soltanto di un semplice passaggio, ma di una pura invenzione! Ma se non hai il senso armonico vivo e fecondo dentro di te, certe cose non le capisci.

Certamente, entrare nel vivo della faccenda, andare a vedere i meccanismi!

Il punto è questo. Il mio insegnante di conservatorio mi spiegava in modo nozionistico certe questioni, ma poi non andava più di lì. Con la formazione jazzistica mi sono permesso il lusso di andare a vedere il pensiero musicale, come dire: “Senti che passaggio straordinario: minore settima, dominante settima, semidiminuito…”, e così via, e poi lo improvvisi tu stesso…

Bravo, bravo! Che poi sono le medesime armonie del jazz, il secondo-quinto-primo… è sia Bach che Charlie Parker… la grandezza del jazz è quella di essere andato oltre certe barriere e di aver posto l’improvvisazione al suo centro. Improvvisazione come capacità di creare un discorso che sia personale. La grandezza del jazz è proprio la soggettività.

È quello per cui lavoro.

Ma è giustissimo. Anche se suoni sempre la solita struttura blues hai l’opportunità di metterci sopra ogni volta qualcosa di diverso, di interpretare quella struttura con la tua musica soggettiva. Una volta dicevano che il jazz era la musica del diavolo perché mettevano le note alterate, ma se tu non metti quelle note, come fai a raggiungere quel tipo di sonorità? Charlie Parker ci ha dato questo, ovvero la libertà di suonare degli accordi che non siano quelli canonici. C’è invece un vedere troppo la musica da un punto di vista degli errori, della sintassi, che naturalmente esiste, esistono le regole perché non possiamo suonare senza regole, ma è necessaria una indispensabile elasticità. Troppi dogmi e troppi schemi fregano inevitabilmente la musica.

E il musicista, specialmente quello alle prime armi.

Ovvio. Quei musicisti che sono andati oltre il repertorio classico hanno avuto le loro ragioni, perché uscendo dall’ambiente accademico classico hanno compreso la grandezza del jazz. Charlie Byrd e Baden Powell per esempio, e già quello è un atteggiamento jazz perché c’è improvvisazione. Chi è il jazzista? È colui che improvvisa, con tutto, non solo con la chitarra, con lo strumento, ma anche con gli schemi, senza averne il timore. Il jazzista non è quello che fa jazz, ma è quello che improvvisa.

Ma quindi, a conti fatti la domanda è: di che gode il musicista classico?

Ogni musicista gode del fatto di fare musica, al di là di tutto questo discorso che stiamo facendo. La goduria sta nel fare musica. La questione è però sulle limitazioni e sui dogmi perché è un automatico precludersi delle possibilità in ogni direzione, soprattutto nella direzione della creatività.

Bel guaio.

Certo, perché se tu sei maggiormente aperto da un punto di vista della creatività non solo puoi tirare fuori cose diverse, ma anche creare nuove cose. “Questo non è consentito” mi dicevano al conservatorio, me lo ricordo ancora.

Quindi si tratta di un musicista che non sa quello che si perde.

Sì perché rimane nel limite e non va oltre, e secondo me ne soffre di questo, soffre terribilmente. Non c’è sinergia.

C’è una rigidità che è impropria.

Secondo me è anche un problema di letteratura, perché tu pensa ad un pianista del secondo anno che già suona brani di grandi musicisti come Mozart e Beethoven, musicisti che ti aprono la mente. Quelle modulazioni, quelle armonie ti restano. A noi chitarristi fanno studiare delle cose che fino al quinto anno tu non riesci a capire che cosa sia un II-V-I. Questa è una limitazione. La letteratura del pianoforte ha dei grandissimi artisti che hanno poi una specie di vero legame con i pianisti jazz. Tu pensa ad Oscar Peterson. Questo non vale per noi chitarristi. La chitarra classica nasce con Giuliani, Carcassi, Carulli, Diabelli, Sor, Tarrega, Segovia, Aguado, roba spagnoleggiante. L’unico è Bach, ma non si tratta di un repertorio per chitarra. È roba trascritta e arrangiata per chitarra. La nostra fortuna è che la chitarra è varia, ce ne sono tante e di tanti tipi, per cui da un certo punto in poi della storia della chitarra, chi avvertiva la voglia di sentirla suonare, non andava più necessariamente ad ascoltarsi il preludio, ma magari si andava ad ascoltare BB King. L’errore è quello di aver impostato il diploma di chitarra unicamente lungo una certa via, ovvero una roba accademica dove tu sai suonare le scale per terze, quarte, quinte, ottave, e esegui i preludi prendendoti pure un bel voto, ma alla fine dei conti non sai suonare.

Difatti la mia linea pedagogica è quella di dare gli strumenti giusti in relazione alla musica che ami, perché gli strumenti sono tanti e diversi e si può rischiare di venire introdotti ad una musicalità e ad uno strumento che non sapremo mai e poi mai suonare come si deve, perché tra noi e questa verità non vi è alcun collegamento. Non so se mi spiego.

Certo.

Per questo non pongo mai la lettura della musica il solfeggio o il dettato agli allievi della mia classe, perché sono strumenti che sono sempre in relazione al tipo di musica che ami e che desideri suonare. Ti piace Bach? Benissimo, allora devi saper leggere lo spartito. Ma se ami Sex Pistols e Metallica, che ci fai con lo spartito? Ci sono insegnanti di chitarra che senza tanti complimenti, indipendentemente da ciò che ami suonare (cosa di cui non gli frega un bel niente) ti insegnano la lettura dello spartito a priori.

No, è castrante…è una castrazione psicologica…

Ho invece ragazzini e ragazzine che attraverso la musica cercano lo sfogo, l’espressione, la condivisione con i coetanei che decidono di realizzare mediante il linguaggio musicale invece di farlo con tablet e smartphone… un allievo motivato che desidera imparare a leggere la musica, che lo desidera ardentemente, ci mette un mese ad imparare e poi si perfezionerà con il tempo e l’esperienza.

Certo, al conservatorio ti stanno addosso anche per l’altezza a cui hai messo il poggiapiede. Ti distruggono con la tecnica del tocco, da fare per anni a quaranta di metronomo e cose del genere. È ovvio che poi un allievo si scoccia.

E la cosa brutta è che se si scoccia è sempre colpa dell’allievo che non ha volontà e che non ha forza… o peggio ancora non è sufficientemente intelligente per capire quello che gli stai insegnando. Ma una minima riflessione su quello che si sta trasmettendo? Forse servirebbe…

Ti dico, io avevo un maestro che mi faceva fare gli esercizi con l’indice e il medio a quatanta di metronomo, ma mi sono sottoposto a questo, sottoposto, ma poi basta, non aveva senso…

Ad un allievo dovresti chiedergli: “Ti piace la chitarra?”. Benissimo! Per prima cosa non esiste “la chitarra”, ma come hai detto tu esistono le tante chitarre: jazz, blues, rock, funky e così via. Quindi esiste anche la varietà della musica e di conseguenza non puoi obbligare uno studente che nella sua innocenza ti seguirebbe ovunque ad imparare una tecnica specifica che serve soltanto in certi settori della chitarra.

Tu giustamente parli di strumenti, di strumenti necessari. Questa è una cosa che si è capita col tempo, perché la didattica ha avuto bisogno di cavie. Io sono stato una cavia di quella didattica, di questa gente…

Specialmente di quegli studenti di conservatorio che per guadagnarsi due soldi ti insegnano solo quello che hanno imparato e basta.

Perché loro provenivano da quella cultura. Noi siamo stati le cavie di queste persone, nel bene e nel male. Perché nel bene io riconosco a questi maestri di avermi dato comunque dei principi che ancora oggi utilizzo. Però, l’altra parte della chitarra è un superamento di tutto questo, del solfeggio, dello spartito, della tecnica, perché dopo ho capito che c’era ben altro , ma tanto altro…

È questo “altro” che è fondamentale… perché poi che cosa accade? Che hai buttato via dieci anni per una musica che non ti interessa e che il primo a rompersi le scatole suonandola sei proprio tu.

Quando non ci sono tutte le cose al loro posto, si può fare questa fine, certamente…

Questa è ignoranza…

È roba da bacchettoni, perché diploma o non diploma, l’importante è che suoni bene e che tu ti diverta. Solo così comunichi qualcosa, il tuo feeling arriva alla gente. Se tu non comunichi, che suoni a fare?

Come faccio a insegnare Carcassi o Diabelli ad un bambino di dieci anni, senza avergli fatto domande sulla musica che ama, che gli piacerebbe suonare?

Questo è sacrosanto.

Senza queste domande come è possibile progredire?

Ad un bambino chiedi: “che cosa vuoi suonare?”.

E lui ti risponde: Hendrix!

Benissimo, allora togliamo la chitarra classica, gli consigliamo quella elettrica e andando per gradi gli insegniamo la magia di Hendrix e le sue tecniche. È inutile dare altri strumenti se quel tipo di musica non lo prevede.

Da qui si parte e si procede per incontri…

Gli dai da ascoltare altri chitarristi, ci metti dentro anche del jazz-blues e così si inizia un percorso. L’ascolto fa molto, tanto, li avvicina all’obiettivo.

Ti fa conoscere.

Ma parti sempre da un punto di riferimento che per te è stato Hendrix. Io ad esempio ascoltai molto tempo fa Virtuoso di Joe Pass, e mi chiedevo: “Ma questo come fa a suonare così?”. Lì vedi la rigorosità di un chitarrista classico unita alla libertà di espressione del jazz. Solo così si toccano vette altissime. Ma senza mettere paletti di matrice accademica, perché c’è gente che, secondo me, ci ha perso la salute.

Vero, ha perso la salute a forza…

Gente che dimagrisce, ci perde il cervello e i capelli per prendere quel voto che poi alla fine non era neppure quello che volevano. Ma ne vale la pena? Tu vuoi fare il musicista? Allora fai il musicista e non ammazzare la tua vita per prenderti il diploma. L’importante è che suoni, fai esperienze, che tu incontri musicisti che la sanno di più e meglio di te in virtù della loro saggezza e lungimiranza. Suonare, stare in mezzo agli altri…

Bravo…

Non deve essere una cosa chiusa e piena di sofferenza…

Come diceva Massimo Troisi a Robertino in Ricomincio da tre: “Robé! Tu devi uscire, ti devi salvare. Ti hanno chiuso dentro a questo museo…”. Vero?

“Vai in mezzo alla strada, vai a rubbà, tocca e’femmine!”. Bellissimo! Filosofia napoletana!

Veramente!

Ti dico che per certi aspetti pure io ho sofferto molto, perché sentivo e sapevo che tutto quello che facevo in quel periodo mi allontanava dal mio obiettivo. Lo facevo per compiacere i miei genitori, per il rapporto conflittuale che derivava dal fatto che desideravo fortemente fare il musicista…

Una cosa comune a molti purtroppo…

Vero? Perché quando tu dici in casa che vuoi fare solo musica e vivere di musica, c’è un’alta probabilità di chiudere ogni rapporto.

Certo.

E tutto diventa una sfida e soffri terribilmente. Ti chiudi nella tua stanza e suoni in una solitudine che ti ammazza. A questo ci unisci gli studi del conservatorio che non sono poi così gratificanti ed ecco che nasce solo sofferenza, perché poi tu devi dimostrare che ce la fai. E all’epoca non c’era niente nei negozi: né una trascrizione, un video, oppure locali dove c’era gente che suonava qualcosa di vicino alla musica che tu ami. Progredisci ascoltando i dischi e trascrivendo, ma è dura. Allora ti metti ad ascoltare anche la chitarra classica perché provi ad entrarci fino in fondo…

Certo, perché è come se tu ti chiedessi: “In fondo loro non si possono sbagliare. Se mi hanno dato da suonare questo repertorio una ragione ci sarà”.

Una cosa del genere. Allora ti metti ad ascoltare la musica del ‘700. ‘800, quella contemporanea per capire se c’è qualcosa che ti è sfuggito. Però vedi, sono cose che vengono mano a mano che progredisci, che maturi. Il discorso è che non puoi bombardare un allievo alle prime armi di musica che non capisce e di cui non comprende l’altezza. Non puoi riempire la testa di note che non capisci solo perché devi o dovrai dare il diploma. Finisce che impari le cose in modo asettico, talvolta senza passione. Facciamo il discorso al contrario, ovvero, andiamo a dire e ad imporre ad un qualsiasi chitarrista di imparare Giant Steps.

Oggi fanno così gli accademici, anche quelli del jazz.

Ma se non sai suonare un Blues in “La Settima”, cosa lo suoni a fare Coltrane? Mi spiego? C’è anche una gradualità che non va di pari passo con il programma, che non riguarda il programma ma riguarda la maturità e l’evoluzione del musicista. Difatti, la prima cosa che a insegno sulla chitarra è il blues, perché apparentemente è la cosa più semplice da suonare.

Bravo, bravissimo, perché poi i ragazzi lo condividono, suonano assieme, crescono insieme.

Questo è l’approccio! Farli appassionare al suono!

Certo perché poi inventano, scambiano, costruiscono, improvvisano. È musica viva che in modo altrettanto vivo condividono con gli altri.

Certamente, e crescono.

Ad esempio, io e te abbiamo un amico comune che è Franco Cerri. Lui un giorno mi ha detto una cosa che personalmente mi ha “fulminato”. Gli chiesi: “Franco, ma tu lo sai suonare Giant Steps?”. E lui con il suo candore, mi rispose: “No, non l’ho mai suonato”. Ed io ho insistito: “Ma ne hai mai sentito la necessità?”. E lui: “No, neppure mi piace”. E ha continuato: “Io suono solo ballad perché amo quel suono”.

Franco è un uomo onesto. La più bella dote di Franco Cerri è la sua onestà, e ce ne sono veramente pochi. Lui non bluffa, fa quello che gli pare e lo fa bene. Stop, basta!

Lui ti fa capire proprio che non gode di quelle sonorità, che non gli piacciono, ed emerge il senso importante del limite, ovvero di suonare solo le cose che ami e basta, senza dover fare inchini a nessuno, senza dover dimostrare niente a nessuno.

Se non suoni quello che ami, cosa comunichi alla gente? Oggi il repertorio è diventato più una patente che altro, e quando lo vai a suonare dal vivo si sente che non ti appartiene. Il dramma è che anche le accademie del jazz che sono nate recentemente si comportano come i conservatori di musica classica.

Capisci? E ti dirò di più, non sarebbe neppure l’accademia, perché l’accademia riporta alla lettura di Platone e delle sue opere, dei dialoghi socratici. È ancora peggio, è lo scolasticismo. Il programma scolastico, che non ha niente a che vedere con l’accademia.

È di una tristezza unica, e ti spiego il perché: il jazz è una musica che ha una tradizione orale, si imparava Confirmation e Anthropology ascoltando quei brani e una gran parte delle persone che conosco, che suonano jazz di livello, hanno imparato solo ascoltando. Oggi con l’accademia o come dici tu con lo scolasticismo, noi dobbiamo dar conto di se stiamo portando avanti un programma didattico, e il programma didattico assicura che l’allievo conosca i parametri per imparare il jazz. Questo significa dare la patente di jazzista. Quindi Giant Steps, oggi, è uguale allo Studio di Fernando Sor. C’è poco da fare e questo significa che se lo sai suonare non è che sei più jazzista di chi non lo sa suonare.

Tutto questo è profondamente non creativo, perché ritornando sempre al mio discorso di prima, se l’insegnante mi fa arrivare a Sor mediante una strada più jazzistica, ovvero dove la teoria che impari la metti anche in pratica in modo creativo, io riesco a vedere Sor e la sua arte sicuramente sotto un’altra luce. C’è della roba di Fernando Sor che è semplicemente meravigliosa.

Difatti per arrivare a quelle cose lì tu devi avere delle nozioni di armonia che il conservatorio non ti dà. E per questo motivo non comprendi cosa stai suonando.

Ma guarda, basterebbe che sopra le partiture ci mettessero le sigle degli accordi, allora sì che uno li capirebbe.

Ma come no, la sigla! La sigla! Gli americani ci hanno dato questa preziosità delle sigle degli accordi che chiariscono tutto: D minor Seven, C major Seven, B flat nine, che sono come indicazioni…

Come indicazioni stradali che ti permettono di capire da che parte stai andando. Ti sembra poco?

Assolutamente no, anzi. Così ti puoi permettere di capire come funzionano certe sequenze di accordi, certi blocchi di accordi come il classico II – V – I …

Oppure quanto sia diversa l’armonizzazione della scala maggiore da quella minore.

Appunto.

Il Preludio in Re minore di Bach fammelo suonare per intero, certamente, ma poi forniscimi lo stesso studio con lo spartito vuoto e con le sigle degli accordi in modo che possa avere la possibilità di eseguirlo avendone compreso il movimento armonico mediante la mia improvvisazione.

Esatto. Fammi improvvisare, fai costruire anche a me qualcosa, dammi questa opportunità di capire facendo concretamente della musica che sia anche la mia.

Perché ne ho una! Adesso, l’accademico ottuso potrebbe risponderti dicendo: “Vuoi fare questo? Fattelo!”. Benissimo, ed io prendo la mia chitarra e i miei spartiti e me li suono. Ma il sottoscritto c’è arrivato da solo. Ma tu che invece sei lì per istruire i giovani allievi, fai altrettanto e costruisci delle strade diverse per amare e fare pratica della musica da prospettive diverse, altrimenti che ci stai a fare? Non vorrai mica dirmi che il sogno di ogni accademico è quello di riproporre la medesima lezione a tutti gli allievi? La stessa che ha ricevuto in sorte? Così sono buoni tutti.

E invece è proprio così. Una lezione per tutti, e così ti perdi il meglio. Ma vedi, non per niente Charlie Parker andava a bussare alla porta di Igor Stravinskij. Perché il musicista vero, quello che ha la tensione a comprendere e conoscere, va sempre nella direzione in cui sente che c’è qualcosa di vivo, di importante.

Di fecondo per il suo stile.

Ed ecco perché questi signori erano, musicalmente parlando, dei gran rivoluzionari. Inoltre, tornando alla chitarra, noi chitarristi abbiamo problemi tecnici specifici, ad esempio il ripetersi di alcune note lungo tutta la tastiera, per cui dobbiamo scoprire come funzionano certe diteggiature su una parte del manico o su un’altra. Questo fa parte della conoscenza dello strumento. Oltre a questo poi abbiamo il problema, come ogni altro musicista, dell’approccio alla musica. Prima devi conoscere.

Ma prima ne devi godere.

Ah, quello si, è chiaro! Se non ne godi non esce niente.

Ma non è chiaro invece, purtroppo. La pedagogia musicale se ne frega del godimento dello studente.

Purtroppo è vero, e il fatto deriva anche dal dato che la professione del musicista non è affatto facile. In Italia non è una professione come le altre, non è mai stata riconosciuta come professione, né dalla società né dalle istituzioni, e quindi tutto concorre a creare una sorta di istituzionalismo della musica. A nessuno interessa cosa provi tu. Tu ti diplomi in conservatorio, ma non sei un musicista, sei un musicista a prescindere. L’accademia ha contribuito certamente a far crescere il livello tecnico, ma non certamente la musica e la musicalità. Prima c’era Dizzy Gillespie, tu lo ascoltavi e rimanevi impietrito da quello che ascoltavi, dalla grandezza della sua musica. Oggi di Dizzy Gillespie sai quanti ce ne sono? Mi viene in mente il concetto di Wynton Marsalis e del Lincoln Center di creare un’accademia del jazz. Non è sbagliato, nel senso che oggi il più fesso dei musicisti americani suona bene, diciamo così. L’ortodossia del jazz l’ha creata proprio Marsalis, secondo me. Ma che cosa è successo negli anni? Che un tempo tu aprivi il Real Book e suonavi le progressioni armoniche senza farti tante domande, divertendoti e crescendo, mentre oggi il Real Book è diventato l’equivalente degli studi di Carcassi, Sor e Diabelli. Oggi è così e la musica sta da un’altra parte.

Personalmente, i miei allievi li tratto in tutt’altro modo. Prima viene il desiderio di suonare, poi la tecnica. Solo così, secondo me, si può arrivare a uno studio onesto e soprattutto mirato, senza tante dispersioni perché, come dicono certi studiosi del sociale più lungimiranti di me, oggi una delle patologie della contemporaneità è proprio la dispersione. Cioè: tu studi un sacco di cose ma non ti servi di alcuna.

Sono d’accordo, perfettamente d’accordo. Mi viene in mente Pino Daniele, uno che la musica ce l’aveva dentro.

Ma com’è possibile che sia venuto fuori un talento del genere?

Era un talento unico. È uno che ha saputo ascoltare, si è saputo documentare senza tanti fronzoli e tutto questo gli ha permesso di tirare fuori quello che aveva. Geniale! Il musicista autentico, sia che sia geniale o no, è questo: non è un titolato, ma uno che sa trovare la sua strada, che ti comunica qualcosa.

E fa la sua cosa.

Dal punto di vista didattico, cerco sempre di essere onesto e capire bene se il mio allievo vuole fare jazz. Se vuole fare jazz gli offro un percorso che parte dal blues, apprenderlo, sentirlo, capirne l’approccio perché è una base fondamentale.

Tu prima mi hai detto che non credi nei contesti in cui tu nasci e ti sviluppi musicalmente e, per certi aspetti, hai ragione. Però, mi raccontava Franco Cerri che quando il padre di Dado Moroni si è accorto che il figlio aveva qualcosa da dire con il piano, la prima cosa che fece fu quella di spedirlo a New York.

Dado Moroni ha un talento incredibile, è uno dei massimi sicuramente.

Ma il padre lo spedì direttamente alla fonte, in America. Questo cosa vuol dire secondo te?

Sai, sono alchimie. Tanta gente va negli States e torna quella che era prima di partire. Comunque questo è un bell’esempio, anche in America c’è l’accademia, però è sempre al servizio dell’espressione, della musica, perché poi lì puoi suonare, hai la possibilità di lavorare con la musica. In Italia no.

Da noi è il contrario.

Certo.

Siamo d’accordo.

Accademia al servizio della musica.

Non accademia al servizio di se stessa.

Bravo.

Accademia come trasmissione di strumenti sì, ma accademia come autoreferenzialità allora no.

No, non serve a niente. Non dobbiamo usare la musica per sentirci chissà chi. Noi dobbiamo comunicare con la musica. La grandezza di Wes era la sua comunicazione musicale. Quando ascolti Wes stai bene, hai un senso di benessere interiore. Questo è il bello della musica. Secondo me a Wes Montgomery non interessava niente di essere Wes Montgomery, di essere additato come il numero uno. Ha sempre suonato allo stesso modo e ha sempre fatto la sua cosa, sia quando era sconosciuto, sia quando è diventato Wes Montgomery. Era il più grande al mondo, non doveva dimostrare di esserlo. Lo era! Oggi invece vanno di moda le patenti e quindi esiste anche la patente di musicista. Ma non esiste.

Ad esempio Mark Whitfield.

È un seguace di Wes Montgomery.

È risaputo che su di lui hanno scritto di tutto e di più etichettandolo come erede di Wes Montgomery. Ma è un prodotto d’accademia, non del jazz e in molti si sono accorti che questa idolatria non conteneva in sé quello che doveva contenere.

Certo, tu non impari più vivendo di jazz, suonandolo, ma ricorri ad una specie di Bignami del jazz, e la scuola di Marsalis è appunto questa, un cadere nello stile del jazz ma senza la sua sostanza. Bravi, certamente, suonano benissimo, sono dei giovani leoni, però se senti Clifford Brown…

Tu ami molto Clifford Brown…

Sì, io amo molto Clifford Brown, l’ho ascoltato per tanto tempo, mi ha colpito il suo fraseggio, quel suo modo di suonare che ti fa vivere ogni sua frase. Frase come elemento cardine del fraseggio. Lui aveva il dono della chiarezza dell’improvvisazione. A me piace molto il concetto di armonia e di melodia che stanno assieme, che si sviluppano assieme, per un interscambio che senti e percepisci.

Tutti musicisti che nella loro inarrivabilità avevano il dono della semplicità. La semplicità inarrivabile che molti confondono con il facile … che invece è un’altra cosa.

Nella semplicità c’è il genio, quello che porta l’inarrivabile a livelli di comprensione. È questa la grandezza di Wes Montgomery.

Oggi invece va di moda il difficile. I miei vecchi maestri mi facevano fare soltanto cose difficili e secondo loro erano belle proprio perché difficili. Poi della musica non parlavano.

Secondo me è una protesi della personalità. Così viene completamente stravolto il messaggio. Forse è perché ti vogliono spillare più soldi per le lezioni. Ti fanno fare sei mesi di scale e tu tutte le settimane appari in aula pensando solo alle difficoltà. E tutto il tempo che impieghi per loro vuol dire danaro, mentre per te significa allontanarti dal vero messaggio della musica che è la sua semplicità.

E poi scopri che hai perso un sacco di tempo in “cazzate”.

Ovvio. Gli chiedi poi: “Ma questo studio quando lo facciamo?”. E loro ti rispondono: “No, è presto, almeno altri quattro mesi!”.

Oppure un anno…

Certo.

Quindi, giusto per sintetizzare, tu dell’accademia cos’è che salvi?

Salvo certe impostazioni tecniche, il rigore, che è importante perché impari a stare sul pezzo senza scollarti. Ma senza eccessi.

Pedanterie… che poi, alla fine la musica classica non la suonano neppure loro…

È vero, tanti smettono perché non ce la fanno più. Quando ti insegnano ti rompono le scatole con il tocco a destra, il tocco a sinistra, l’appoggiato, le legature, oppure le unghie finte, la lima, la colla, il poggiapiede, tutta roba finta… Poi anche loro si rompono le scatole e non suonano più. Addirittura un mio insegnante mi confidò che la mia scelta di smettere con tutto e tutti che feci a suo tempo e di mettermi a suonare jazz è stata una cosa intelligente. Pure loro mi hanno detto questo.

Rinnegano quello che fanno.

E chi li regge??? Io ho seguito semplicemente il mio istinto. Mi sono detto: “Basta, questi mi stanno prendendo in giro!”.

E questo la dice lunga su di uno dei più grandi luoghi comuni della chitarra – ma penso della musica in generale – che quando un bambino decide di mettersi ad imparare la chitarra gli viene insegnata automaticamente la chitarra classica. Trovo questa cosa profondamente ignobile.

Perché la chitarra classica dà quel tono di serietà che gli altri stili non hanno anche agli occhi dei genitori. Per lo meno un tempo era così, ma penso che lo sia anche oggi. La musica classica è seria, il jazz e il rock invece no. Ma oggi, per certi aspetti, è anche vero il contrario, perché la gente vuole andare in televisione, perché sono cambiati i valori … Mio padre pensava che io dovessi fare o il chirurgo o l’avvocato, insomma qualcosa che mi desse del guadagno. E mio padre non vedeva la musica come un lavoro ma come un hobby. Allora l’unica possibilità era che uno avesse un diploma di conservatorio.

E tutti questi diplomati in conservatorio poi offrono nuovamente le stesse lezioni che hanno fatto a loro tempo senza inventarsi niente di nuovo, senza mettere in discussione quello che hanno imparato o quello che gli hanno insegnato.

Certo, la medesima lezione. Oppure, male che vada, si dicono che andranno ad insegnare musica alle scuole medie. Ora, secondo te, mi distruggo di studio per dieci anni per andare a insegnare musica nelle scuole medie? Ma che me ne frega! E le mie soddisfazioni? Le mie conquiste? La mia carriera? Loro sono felici, ma io, personalmente non lo sarei. Sono felice di aver creato questo nome “Nicola Mingo”, ho lavorato solo per questo, per mettere questo nome sopra i miei dischi, sopra le mie cose, le mie soddisfazioni. Me la sono giocata insomma.

Ti sei costruito.

Mi sono costruito, sfida dopo sfida, da quelle con i genitori, con mio padre, a quelle della vita di tutti i giorni.

Ne puoi essere orgoglioso.

E certo, sì!

Grazie Nicola…

Grazie a te…

 

* * *

 

Intervista realizzata presso la scuola di musica Ladybird Project di Roma il 20 ottobre 2015.

 

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