Tomaso Cavallo
di Andrea Carnesecchi e Francesco Pratelli
I filosofi si dilettano ad arrovellarsi su questioni del tipo “che cos’è l’essere?” o “che cos’è la differenza ontologica?”, insomma su delle problematiche di cui sinceramente non riesco a comprendere il motivo. A volte rimango affascinato nel leggere i testi dei cosiddetti “filosofi veri”, però non mi sento di avere un “Cavallo-pensiero”. In realtà, più che un filosofo, sono soprattutto un traduttore e se mi è capitato di insegnare Filosofia è stato per un percorso che la vita mi ha regalato e che ho deciso di intraprendere. È stata una bellissima esperienza, anche se un po’ travagliata, perché negli anni di precariato in cui avevo due anni di assegno ministeriale non sapevo neanche se mi sarebbe stato rinnovato o meno. Nonostante questo, però, eravamo in un’epoca delle “vacche grasse”, appartengo ad una generazione molto fortunata da questo punto di vista, per cui era rarissimo che non confermassero un rinnovo. La svolta comunque è stata quando come ricercatori abbiamo avuto la possibilità di fare didattica.
E adesso che è in pensione come si tiene occupato?
In questo momento la cosa che faccio più spesso è dedicarmi alla musica, tant’è che una delle mie attività è quella di cantare in un coro.
Filosofo e musicista quindi…
Musicista purtroppo no, anche se so leggere la musica non ho mai avuto la vocazione musicale. Però sono cresciuto in una famiglia allargata con cugini pianisti, chitarristi e bassisti, tutta gente che ha fatto studi di conservatorio. Prima che mi dimentichi, vorrei farvi vedere una cosa che ho pensato potesse essere interessante mostrarvi per introdurre la nostra discussione: le opere complete del Padre Bourdaloue, che immagino non saprete chi sia.
No, infatti…
Padre Bourdaloue è stato un gesuita che predicava alla corte di Luigi XIV ma se andate a fare una ricerca su internet e digitate la parola “Bourdaloue”, troverete che c’è una specie di pitale che è chiamato “il Bourdaloue”. Questo perché le sue prediche erano così lunghe che le signore che andavano ad ascoltarle, non volendosi perdere neanche una parola, nel caso avessero avuto dei bisogni fisiologici di carattere urinario, avevano pronte delle ancelle che subito portavano loro il “Bourdaloue”. Sapete che le donne al tempo non indossavano “mutandine” come oggi ma portavano questi grandi “gonnoni”.
Ho tutte le opere complete del Bourdaloue raccolte in questa bellissima edizioncina che ho comprato per due soldi a Istanbul: la trovai in una libreria gestita da un turco – prima doveva essere la libreria di un greco, e voi sapete che i Greci con i Turchi non vanno molto d’accordo – il quale non si rendeva conto che questa pubblicazione aveva un suo valore. Ci sono tutta una serie di prediche, ad esempio quella “Sull’impurità” dove ciò che fa è prendere un versetto del Vangelo o della Bibbia e sviluppare da esso una predica straordinaria. Quando voglio rientrare nel clima della mia infanzia e della mia prima giovinezza leggo una di queste prediche perché, leggendole, ho proprio l’impressione di risentire le parole di un celebre canonico che la domenica veniva a predicare nel paesino dove sono nato. Ricordo che faceva delle prediche di quaranta minuti, una cosa che non finiva più: la messa grande, quando c’era il canonico Politano, era pressoché infinita. Però era affascinante e, a distanza di trenta o quarant’anni, trovando questo Padre Bourdaloue, ho scoperto uno dei modelli ispiratori della retorica ecclesiastica del canonico Politano.
Questo per dirvi che cosa? Che, pur essendo nato in anni in cui la chiesa con Papa Giovanni XXIII tentava quello che veniva chiamato “l’aggiornamento” o “il rinnovamento”, sono comunque cresciuto in un contesto ancora fortemente permeato dal Cattolicesimo, poiché questi elementi di riforma impiegarono diverso tempo prima di arrivare fino in periferia. Poi gli anni passano e sono finito nel XXI secolo, ma per molti aspetti mi sento ancora un uomo del XX; in quel periodo, infatti, ho vissuto l’esperienza di approccio alla vita, attraverso l’infanzia e l’adolescenza. Per certi aspetti credo di aver avuto quella che potremmo definire “l’esperienza della lunga storia dell’umanità”: la prevalenza del mondo contadino, la mancanza di luce nelle case, la mancanza di acqua corrente, gli animali che circolavano liberi per le strade, gli stessi cavalli, che rimandano anche al mio cognome! Ricordo che in quegli anni arrivavano i primi trattori in campagna, le prime mietitrebbia industriali dall’America e a volte anche dall’Unione Sovietica. Proprio in quel periodo arrivò nel mio paese dall’Unione Sovietica un trattore veramente enorme che si chiamava “Ursus”, era una cosa che faceva sgranare gli occhi.
Il contesto familiare e paesano in cui sono cresciuto era fortemente segnato da un cattolicesimo post-tridentino e, nonostante il Concilio Vaticano II, l’impostazione controriformistica fu ancora per molti versi il pane quotidiano che mi alimentò nell’infanzia e nella prima adolescenza. Ho passato cinque anni in un collegio salesiano dove c’era appunto la messa quotidiana e la preghiera serale con la piccola predica della buonanotte. A questo proposito, una delle cose che facevo più volentieri era quella di cercare di essere “arruolato” nella compagnia di teatro, perché chi andava a fare le prove di teatro non doveva stare a dire le preghiere della sera.
Quindi, partendo da un contesto come quello che ci ha appena descritto, cosa l’ha portata alla filosofia?
La scelta della filosofia è figlia di una mia crisi religiosa ed esistenziale, possiamo dire di una crisi di fede. Vedete, la religione da delle risposte molto forti, che poi queste siano costruite, come direbbe il mio caro Spinoza, su una conoscenza di primo genere, cioè siano basate sul desiderio e sull’immaginazione, poco importa. In fin dei conti San Paolo è colui che dice: «Dov’è, o morte il tuo aculeo?». Con la resurrezione di Cristo nasce un senso della vita posposto nella “vera vita”, che è quella che comincia dopo la prova terrena, attraverso la quale abbiamo tutta una serie di soluzioni possibili per liberarci dalla disperazione, poiché in qualunque situazione, anche nella più tragica, sappiamo che ci sarà una metamorfosi completa, una salvezza. Oggi i teologi, affermando che l’inferno esiste ma è vuoto, non affrontano più, soprattutto a livello pastorale, un capitolo importante come quello delle pene infernali, della penitenza finale e della morte definitiva. Ad oggi l’inferno è uno spauracchio finito, ma nel mondo in cui sono cresciuto questo dualismo finale era il pane quotidiano ed era quindi, per certi versi, una forma di oppressione.
Il mio accostarmi alla filosofia era quindi una ricerca di ragioni che mi permettessero di capire il grande significato che poteva avere il mondo in cui vivevo, come ad esempio cercare di comprendere il mistero della nostra provenienza. Ho sempre pensato – al liceo era una delle frasi che ripetevo più spesso – che noi abbiamo tre capitali ideali: Gerusalemme, Atene e Roma. Poi, per carità, il mondo è un po’ più complicato di così, ma anche per questo uno degli autori che mi sono stati più cari è stato Voltaire, perché è lui che rivoluziona la storiografia europea quando, anziché far partire la storia dal popolo eletto – come faceva il Vescovo Bossuet, che successivamente passerà ai cristiani il compito di garantire che il mondo arrivi ad essere convertito alla verità – fa cominciare la storia dalla Cina. Oggi si potrebbe dire: «Beh, era acuto il ragazzo!».
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Intervista realizzata il 21/03/17
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